CON LE TOPPE, MA FELICI!!!
Riprendo il discorso iniziato da Mario convenendo che, davanti alle eterne domande di chi siamo e dove andiamo, ci sentiamo tutti smarriti non avendo alcuna risposta certa. Non sappiamo quale sia la direzione che stiamo prendendo nel panorama che ci circonda non troviamo appigli rassicuranti, e quasi mai riusciamo a scorgere traccia dei nostri sogni e delle nostre aspettative, delle nostre speranze. La sola consolazione che abbiamo, l'unica certezza su cui possiamo contare è che sappiamo chi sono state le persone che ci hanno messo al mondo: i nostri genitori e quello che hanno fatto per noi, per loro, per i nostri figli.
Si perchè, a guardare indietro scorgiamo un paese che uscito dalla guerra ha avuto la forza di rimboccarsi le maniche senza farsi prendere dalla disperazione nonostante si trovasse immerso nelle macerie della Seconda Guerra Mondiale. Per molto tempo noi italiani siamo stati felici con molto meno di quanto abbiamo adesso.
A dirci chi eravamo, ma soprattutto come eravamo, è stata la Doxa, che tra l'altro compie 70 anni proprio in questi giorni, la prima agenzia italiana di statistica che dal dopoguerra ad oggi ci ha raccontato come ci siamo trasformati e cosa siamo diventati anno dopo anno.
Così, un pò per curiosità un pò per informazione, sono andata a visualizzare all'interno di questa agenzia di statistica e ho trovato un racconto lungo settant'anni che non è fatto solo di numeri ma anche di comportamenti, di modi di fare, di abitudini.
Le statistiche di allora ci hanno permesso di conoscere, di fotografare il carattere di una nazione, una specie di carotaggio della società dal quale venivano fuori non soltanto le cifre relative ai lavori e alla scuola, ma anche gli orientamenti, i pensieri, le paure, le speranze, gli obiettivi, il comune sentire insomma di un popolo in marcia.
Non era mica facile far capire agli italiani cosa fossero i sondaggi a quel tempo. Alle statistiche il poeta romano Trilussa aveva dedicato una sua poesia con la quale prendeva in giro il sistema di ridurre tutto a media. Insomma, se un povero cristo non mangia niente e un ricco mangia due polli, secondo le statistiche hanno mangiato un pollo a testa.
A sfogliare l'album dei ricordi emerge un paese che neanche ricordiamo. Il profilo di un italiano che abbiamo dimenticato. Mettevamo le toppe alle giacche e ne avevamo soltanto due, una estiva e una invernale. Eppure negli anni '50 un italiano su tre diceva di essere felice. Avevamo il cotto sul pavimento in casa ma per i pavimenti sognavamo il linoleum perche' era moderno. Sedici milioni di italiani non avevano l'orologio da polso e 34 famiglie su 100 non avevano nè il frigorifero nè la lavatrice in casa.
Negli anni '60 nelle case c'erano più macchine da cucire che televisori ma in quegli stessi anni era forte la sensazione che i figli avrebbero avuto più opportunità di quelle che avevano avuto i loro genitori. E' stato così per quarant'anni e infatti il tasso di felicità nazionale è cresciuto in quegli anni passando dal 34 al 58%.
Ma i tempi cambiano e già alla fine degli anni '90 c'è un rallentamento. Le nostre abitudini si modificano, non mangiamo più a casa all'ora di pranzo mentre una volta il capofamiglia rientrava sempre all'ora di pranzo.
Negli anni '80, prima della crescita esponenziale dei cellulari soltanto 2 italiani su 10 fanno almeno una telefonata al giorno e di questi soltanto l'1% la fa interurbana. Ci credereste? In Italia, nel paese dove si registra il maggior numero dei telefonini d'Europa. Ecco un altro dato che ci dice cosa eravamo e cosa siamo diventati.
Questa è materia ancora calda, troppo vicina a noi, è difficile da analizzare, si possono solo fare delle ipotesi ma nessuno può dirlo con certezza.
"Abbiamo fatto l'Italia, ora si tratta di fare gli italiani", aveva detto Massimo d'Azeglio all'indomani della proclamazione dell'Unità Nazionale.
Ma quel patriota avrà visto davvero giusto?
Francesca
Cara Anna credo tu abbia fatto una sintesi abbastanza veritiera del boom economico iniziato negli anni ’60. La gente si era infine dimenticata gli anni bui del dopoguerra, quando il paese era ridotto in brandelli. È pur vero che tanti erano ancora i problemi da affrontare, fra cui la carenza di servizi pubblici, di scuole, di ospedali e di altre infrastrutture civili. Ma in complesso prevaleva un clima di ottimismo, la positività di cui parli tu. Il sistema economico marciava a pieno regime, il reddito nazionale stava crescendo e la gente era rinfrancata dall’incremento dell’occupazione e dei consumi.
Tutto quello che manca adesso, insomma. Ma possibile che ci voglia una guerra per risistemare il mondo?
Grazie, un caro saluto.
Penso che “l’optimum” sia stato il trentennio 60-90, in una società di transizione tra quella contadina-industriale e poi post-industriale.
In quei anni il “benessere materiale” era già diffuso ma allo stesso tempo i valori positivi della società “contadina” erano ancora presenti nella società, insomma un mix perfetto.
(Con questo non voglio dire che tutti i valori della società contadina fossero positivi ma certamente una buona parte lo erano.Bell’argomento Franci, tanti riflessioni e ricordi.
Ciao Michelangelo, bentornato! Sei peggio di me, sempre in giro..mmm..Condivido tutto quello che hai scritto ma soprattutto devo dirti che anche a me è piaciuta molto la frase di Nembo sulla felicità. Perciò apprezziamo ciò che abbiamo e, forse, saremo un pò più sereni (non dico proprio felici..).
Ti abbraccio.
Cara Francesca, dici bene tu e dicono bene anche tutti i commentatori che mi hanno preceduto. Tempi, persone, mentalità completamente cambiati. In meglio? Per certi versi si, ma senti qua: di fatto siamo una comunità che condivide tutto e non condivide niente. Condividiamo foto di piatti succulenti ma non abbiamo ospiti alla nostra tavola a cui farli gustare. Condividiamo le foto dei nostri figli e nipoti ma spesso siamo singole entità che abitano in appartamenti sempre più isolati dove gli affetti sono blindati e la nostra fiducia nelle persone si misura con le recensioni.
E’ significativa una frase che ha scritto l’amico Nembo: “La felicità non appartiene a chi possiede tutto, ma a chi sa apprezzare ciò che ha”. Mi piace.
Un forte abbraccio. Ciao
Cara Gianna, le cose che hai vissuto tu sono le stesse che, chi più chi meno, abbiamo provato tutti. Tornare indietro? Impossibile. Ma è possibile modificare ancora qualcosa, secondo me, basterebbe tanta buona volontà.
Grazie, un caro abbraccio.
Cara Francesca,nel tuo post, dici “Con le Toppe, ma felici!!” Dipende, ogni famiglia sapeva quel che bolliva nella sua pentola. Se era una famiglia numerosa non aveva molte scelte,poi dipende dal periodo, se prima oppure dopo la guerra. Io per fortuna non c’ero ancora. Tutti abbiamo fatto la dieta mediterranea,si mangiava cose genuine,ma piatti unici. I miei avevano dei terreni per il fabbisogno della famiglia, degli animali da cortile, sempre il maiale per la carne e salumi, dovevano tenerlo risparmiato per tutto l’inverno e salumi anche per la primavera. C’era un primo piatto e alla sera un buon secondo, verdure in quantita’dipendeva dalle stagioni. Allora non c’era il frizzer nemmeno quando sono nata io. Dunque niente scorte, niente sprechi, l’importante era non andare dormire con la fame!! La frutta era dei nostri alberi da frutto,comperavamo solo le arance,e certe primizie per noi bambini, perche’ rimaneva solo una quantita’ di mele.Avevamo la casa ereditata dal nonno paterno ma eravamo felici in quei tempi. C’erano le toppe nelle nostre maglie invernali, ma non era moda, perche’ erano consumate e bucate, ma sempre felici ugualmente,, senza pretese. Non come i giovani d’oggi, capricciosi per seguire la moda.Ricordo che lavorava papa’ e 3 fratelli, presto fatto il bilancio delle entrate. Si viveva modestamente. Ora invece si spreca moltissimo, si seguono le mode. Abbiamo ora imparato a dare l’importanza alle cose ,che abbiamo potuto comperare con grandi sacrifici. La casa con il mutuo come molte persone per la nostra piccola famiglia, che possediamo e non oltre. Oggi chi ha un lavoro è solo fortunato. Evviva le Toppe per essere felici!! Un saluto.
Caro Franco, tu hai citato il ’68. Ebbene io sono figlia di quel ’68 milanese. Allora ero una studentessa convinta,insieme alla mia “squadra”, di riuscire a cambiare il mondo. Eravamo sicuramente degli illusi idealisti e forse anche un pò sbagliati, Non ho (abbiamo) fatto niente di tutto questo ma almeno avevamo sogni e speranze, e ci credevamo. Quanto mi piacerebbe vedere che i giovani desiderano un cambiamento, un VERO cambiamento e fanno qualcosa perchè avvenga.
E poi convengo, pur con una nota di dispiacere, che quel tuo amico artigiano se l’avesse ceduta una ventina d’anni fa, (senza risalire al 47/48), la sua attività, avrebbe realizzato parecchio. Oggi, neanche a regalarla…..che tristezza!! E poi manca il lavoro…..Giovani, svegliatevi!!!
Questa mattina sono stato da un amico che ha una “bottega”a Modena , aggiusta borse , borsette e cinture da cinquant’anni . Ha ogni possibile accessorio ed è l’unico a farlo in maniera professionale e il negozio è in pieno centro . Sulla vetrina c’è un cartello con scritto “a dicembre si cessa l’attività” . Ho chiesto come mai non ha trovato nessuno che lo rilevasse , dato che ha un buon “portafoglio” e un indotto di parecchi decenni.
Era disponibile a non chieder nulla e farsi solamente pagare i materiali che venivano venduti di volta in volta.Mi ha detto che sono venuti alcuni giovani , ma che hanno rifiutato perchè si “doveva lavorare “(le borsette non si aggiustano da sole) , perchè era necessario lavorare il sabato e per le feste natalizie anche la domenica , perchè non si possono fare “i ponti festivi” o le vacanze lunghe …. e perchè è un lavoro da artigiano (come se fosse un disonore esserlo).
Questo mio commento vuole rialacciarsi all’articolo di Francesca dicendo che nel 47/48 ,questo negozio avrebbe avuto mille pretendenti!!!!
Non dobbiamo fare solo gli italiani in senso generico , ma far capire ai nostri giovani che “si devono fare i calli nelle mani ” (cito il maledetto toscano) e se non hanno avuto le capacità e la fortuna di avere una cultura superiore (che sarebbe la cosa ottimale) devono tirarsi su le maniche e non vivere di api-cene,di pizzerie , di sballi, di vacanze e vacanzine, di shopping nelle outlets con i soldi dei genitori e dei nonni… e che prima di vaffanculare devono riguardare e rileggere bene la storia dei loro nonni e prendere esempio. Ragazzi ….vacche magre in vista !!!!!!!!!!!!!!!
Faccio eco a Rosa e a Nembo dicendo che i nostri genitori ( e noi nati prima o durantre la guerra ) era già tanto se avevamo salvata la pelle e uno straccio di casa . Chi partiva da zero ,anche il desiderio di un economicissimo pavimento di linoleum da mettere sopra a quello di cotto sbrecciato era già un sogno. La ricostruzione non poteva che essere trascinata dalla voglia di vivere , molti mangiavano la carne dopo mesi o anni di privazioni.Tutto era nuovo , dal frigorivero , al bagno (la maggior parte delle case aveva si o no una “turca” e un lavandino)dalla radio alla televisione (inizialmente bene di pochissimi, primo mezzo di socializzazione).
Poi è arrivato il 68 con le sue lotte ,le contestazioni anche di quegli “ideali familiari” che avevano retto la società e che ci avevano portato fuori dalla guerra mediando spesso traumi tragici.
Il benessere degli anni successivi , l’epoca della finta abbondanza , delle inflazioni a due cifre dei mutui ,che davano a tutti l’impressione di una ricchezza che non esisteva.
La realtà oggi non può essere fatta che di confusione politica , di code di consumismo imitativo , di frustrazioni, di paure per il futuro e di timori per una globalizzazione senza argini, di mugugni , di populismi e quindi di “ideali” indotti dalle necessità e non da veri programmi futuri.
Facciamo gli italiani ? Quali ? Fra vent’anni saremo una maggioranza di vecchi …forse dobbiamo rivedere il mondo con occhi diversi e non con quelli di cartoline sbiadite di 70 anni fa.
Lorenzo, sembra un paradosso ma è proprio così.
Grazie, un abbraccio.
Il che è come dire, Franci, che si stava meglio quando si stava peggio. Ne sono convinto anch’io.
Cara Rosa, innanzitutto benvenuta in questo blog. Il tuo esordio come commentatrice è lodevole e moralmente degno del post. Noi, che siamo leggermente più giovani di te, stiamo imparando molto dalle tue parole.
Grazie e un caro abbraccio.
Cara Francesca hai scritto un articolo che mi ha riportato indietro di anni e anni. Quello che ti potrei raccontare di quegli anni credo di saperne piu’ io che la Doxa, che tra le altre cose è a 100 metri da casa mia. La Doxa non sa dei nostri patimenti, soprattutto quelli di Napoli. Cominciamo dalle 4 giornate di Napoli. A quei tempi la mia mamma non trovava un tozzo di pane. Poi pian piano, con il contrabbando si riusciva a mettere assieme un pasto che consisteva di un piatto di minestra a pranzo mentre il secondo piatto lo si mangiava a cena. E’ così che a Napoli è nata la dieta mediterranea. I nostri pasti mancavano di tutto, niente frutta troppo lusso.. Poi, nel 1960 mi sono sposata, allora si era un pò meno poveri. Ho seguito mio marito di Capodimonte ed era militare, a Milano. Qui sono venuta in viaggio di nozze e son rimasta. Io appartengo a una famiglia di artigiani. Il mio bis bis nonno era sarto da uomo e sia mio padre che mio fratello, tutti sarti. Anch’io lo sono sempre stata mentre mia madre faceva la modista. Erano tempi duri ma lavorando sodo ce la siamo sempre cavata. Di sicuro eravamo più felici allora con poco, che adesso con tanto.
Eh si, caro Nembo, son cambiati i tempi. Ma io credo che siano cambiate anche le persone. Più si ha e più si pretende. Tutto viene bruciato nel giro di poco tempo e si deve, obbligatoriamente, passare al successivo modello, all’ultimo smartphone, all’ultima autovettura, all’ultima moda, all’ultimo…tutto. Sicuramente l’alzarsi del livello dell’istruzione e l’avvento dell’era tecnologica sono stati eventi positivi, ma hanno sottratto tanto al piacere e al divertimento semplici, alla pura felicità di condividere tutto esclusivamente con estranei attraverso un monitor.
Grazie Nembo, un caro saluto.
Francesca il tuo Post, mi riporta con i ricordi indietro da parecchi anni e, per questo ti ringrazio, allora, per giocare bastava un fazzoletto, delle biglie, dei tappi di bottiglia un cerchio di bicicletta e, anche se avevamo qualche toppa eravamo felici ora invece anche se i ragazzi hanno vestiti di marca, videogiochi,smartphone, tablet e altri surrogati di tecnologia, vivono in un mondo virtuale. Nel dopoguerra si viveva anche in povertà, ma tutti avevano gesti di solidarietà verso chi aveva più bisogno dimenticando la durezza della vita quotidiana. Con il tuo racconto Francesca, percorriamo la fine della seconda guerra fino ai giorni nostri, le attività lavorative di allora impegnavano i nostri nonni, padri, fino a 10-12 ore di lavoro specialmente nei campi seguendo il ritmo delle varie stagioni con i pochi mezzi meccanici a disposizione, però la famiglia era sempre unita e, loro pensavano che i loro sacrifici, la loro opera sarebbe servita ai figli, ai nipoti. Ora tutto è cambiato dalla evoluzione dalla famiglia, dalla scuola,dal lavoro e nella vita sociale, sono cambiati i tempi vero, ma forse sono cambiate anche le persone non dimenticando la politica, ora si condividono pensieri, foto, dialoghi senza guardarsi negli occhi ma solo condividendo le varie cose in fb o altro ancora, siamo arrivati al punto di non conoscere nemmeno il nosto vicino di casa o del pianerottolo, tutto ora è blindato dalla porta alla nostra fiducia verso gli altri e, la misuriamo attraverso le varie recessioni trovate in internet.Il cambiamento in atto è frutto di modifiche che si sono propagate tra le generazioni forse dimenticando il sistema educativo e rispetto sempre più in deterioramento. Interessante sarebbe anche da valutare i vari livelli di istruzione e l’evoluzione della struttura produttiva dal dopoguerra ai giorni nostri, compresa la disoccupazione giovanile con le varie percentuali. Quel patriota aveva visto giusto che a quel tempo aveva pronunciato quella frase forse con un pò di fantasia, ma che ora è concreta.La felicità non appartiene a chi possiede tutto, ma a chi sa apprezzare ciò che ha. Un Saluto.