Molto spesso mi è capitato, specie qui in Eldy, che mi venisse chiesto cosa sono i "friarielli" che alcuni italianizzano in "frigiarelli", ma che, secondo me, sono friarielli e basta (da frijere=friggere). Prima di dare la ricetta dei friarielli vediamo precisamente cosa sono. I friarielli sono una specialità tipicamente napoletana. Attenti a non ordinarli nelle altre zone della Campania: già in Penisola Sorrentina, a meno di 50 Km. dal capoluogo, se chiedete una porzione di friarielli vi porteranno dei (magnifici, per carità) peperoncini verdi fritti. Perché “frijere” in napoletano vuol dire semplicemente friggere. Il friariello è di umili origini. Proprio come il piatto più famoso della cucina partenopea: la pizza. Non a caso, “’a pizza ch’e friarielle” è stata la prima variante (dopo la Margherita) della pizza. Ma stavamo dicendo cosa sono i "friarielli" napoletani. I friarielli sono molto simili alle cime di rape, sono broccoletti con infiorescenze appena sviluppate. Si soffriggono in aglio, olio e peperoncino e rappresentano uno dei piatti più caratteristici della cucina napoletana e difficilmente si trovano lontano da Napoli. Nella cucina napoletana i friarielli formano un binomio quasi indissolubile con la salsiccia, con la quale vengono utilizzati come ripieno per panini, o comunque vengono accompagnati con il pane. Si dice che ...." 'a morte lloro è cu 'e sasicce" (la morte loro è con le salsicce). LA STORIA DEI FRIARIELLI (ripresa dalla rete) Per indicare qualcuno che non è molto intelligente si dice: “Non è un’aquila.” E anche: “Non è una cima.” Questa seconda espressione si rivela assai poco calzante quando il soggetto di cui si parla è un napoletano. E quando le cime non sono quelle elevatissime del genio, ma le umilissime, terrestri cime di rapa. “Rapa: pianta orticola coltivata per la produzione delle radici, di forma tondeggiante o allungata, dalla polpa bianca e croccante e dal sapore intenso, dolciastro o leggermente piccante”. Così recita il Dizionario di gastronomia di Antonio Piccinardi. Non ci si lasci ingannare da questa accattivante descrizione: le rape non sanno di niente e quindi una testa di rapa è una testa imbottita di idee sciocche, o - quando va bene- insipide. L’impossibilità di cavar sangue da una rapa è la metafora linguistica più adatta a descrivere l’inutilità degli sforzi di chi cerca di ricavare qualcosa dal Nulla assoluto. Ebbene, i napoletani sono riusciti in questa missione che va ben oltre i confini dell’impossibile. Con l’aiuto del proprio proverbiale ingegno, certo: ma pure dell’umilissima rapa. Poveri com’erano di tutto, ma non di idee, i napoletani "d’antan" (francesismo che deriva da "d'un temps"...di un tempo) potevano rivolgere lo sguardo solo verso i cibi poveri quanto loro. Ad alzare gli occhi incavati dalla fame verso le finestre dei ricchi erano invece le napoletane, che si affollavano sotto le cucine dei nobili nella speranza che si degnassero di buttar loro qualcosa. Quando i ricchi del momento erano i Francesi, i cuochi (i “Monsù”) d’Oltralpe solevano gettare alla plebe gli avanzi (o peggio: i rifiuti) della cucina. “Les entrailles”, le interiora del pollame e di altri animali divennero così il nome con cui venivano chiamate le popolane che se le contendevano tra urla e spintoni: “zandraglie”, per l’appunto. Forse è per questo che Napoli è considerata un luogo dell’anima: un luogo interiore. Purtroppo, però, non sempre il cibo pioveva dal cielo. Per mangiare, i napoletani cominciarono a guardare in basso: alle cime di rape. Dove per “cime” s’intendono gli ammassi fiorali, le infiorescenze non ancora aperte, delle rape. In una parola, i broccoletti. In Italia, a questo alimento s’interessavano in tanti (specie al Sud, terra di poveracci): chi li lessava, chi li cuoceva. I Toscani le chiamavano affettuosamente “rapini” e li lessavano prima di aggiungerle alle salsicce, i baresi li cucinavano con le orecchiette. Questa abitudini sono vive ancora oggi, in quelle terre. A Napoli no. A Napoli, le cime di rapa prima si lavano, e poi, tutte bagnate, si gettano nell’olio. Con il loro sacrificio danno vita ad uno dei piatti più creativi della cucina partenopea: i friarielli. Le cime di rapa cotte nell’olio. Ma dove sta tutta questa creatività? In fondo si tratta di un piatto povero, e pure semplice da preparare. Per capirlo bisogna fare un passo indietro. Quando qualcosa (o qualcuno) non gli piace, o non lo convince, il napoletano dice: “Nun me dà calore”. Calore va inteso come caloria. Il metro è infatti questo: il Bello (e il Buono) sono le cose che nutrono. Contro le calorie a Napoli si è sempre combattuto: non per diminuirle (come si fa oggi nel mondo occidentale), ma per aumentarle. In quest’ottica, le cime di rapa (a buon mercato in qualunque buon mercatino) di calorie ne fornivano davvero poche. In assenza di dietologi e nutrizionisti, questa informazione proveniva dalla pancia. Per gustarsele, occorreva perciò metterle insieme a qualcosa di fortemente calorico. E’ qui che saltò fuori l’idea geniale: le cime di rapa venivano cotte dentro abbondanti razioni di strutto che a Napoli, come tutte le grandi madri, è femminile: ‘a nzogna, cioè la sugna. Un ottimo sistema per fare un pieno di energia. Oggi qualcosa è cambiato: il grasso. Lo strutto ha ceduto il posto all’olio di oliva: quello extravergine, il più stabile alle alte temperature necessarie per friggere. L’olio e la frittura però vengono dopo. Prima bisogna dedicare la propria attenzione alle cime di rape. Che vanno raccolte al momento giusto: i fiori devono esserci già, ma non devono essersi ancora aperti. Ma non preoccupatevi troppo: a scegliere le cime di rapa più adatte a diventare friarielli ci pensa il vostro “verdummaro” (Verdumaio). A voi potrebbe toccare il compito di “ammonnarli”: cioè di mondarli delle parti non utilizzabili per la frittura. E’ un altro momento importante, perché vanno lasciate solo le foglie più tenere, insieme a un po’ di gambo: non troppo, ma nemmeno troppo poco. Raccolte, “ammonnate”, e lavate, le cime di rapa vengono invitate ad immergersi nell’olio ben caldo, dove avranno l’onore di diventare friarielli. Mai bollirle prima! Gran parte del sapore volerebbe via. Nella padella, insieme all’olio, c’è già in attesa l’aglio. A cottura quasi ultimata, si può (si deve!) scoprire, si aggiunge il sale e il peperoncino. Eccoli qua, i friarielli. Finalmente sono nati. Ma da come si muovono nella padella, si comprende che si sentono orfani. Si voltano e si girano, fino a che non vengono portati dalla loro mamma: la salsiccia. Di maiale, ovviamente. Friarielli in padella Ingredienti per 6 persone: 5 fasci di friarelli, 2 spicchi d'aglio, 1 peperoncino piccante, 150 gr.olio d'oliva extra verginesale q.b. Preparazione: Mondate e lavate i friarelli e, senza sgocciolarli troppo (devono scoppiettare), metteteli in una padella dove avrete fatto rosolare l'aglio e il peperoncino in abbondante olio d'oliva extra vergine. Per non farli attaccare (diventerebbero amari e avrebbero un pessimo sapore) rigirateli di tanto in tanto. Appena sono ben appassiti, potete servirli caldi, ma sono buonissimi anche freddi. Salsicce con Friarielli Ingredienti per 6 persone: 12 salsicce pari a un kg., strutto un cucchiaio (o olio extravergine), vino bianco 1/2 bicchiere, sale q.b. Preparazione: Dopo averle bucate con una forchetta, mettete le salsicce in una padella con un cucchiaio di strutto e, a fuoco piuttosto vivo, fatele rosolare rigirandole di tanto in tanto. Se il condimento accennasse a bruciare versatevi un dito di vino bianco. Quando le salsicce saranno rosolate, aggiungete un pò d'acqua e ultimatene la cottura (occorrerà in tutto circa un'ora). Prima che siano rosolate completamente unitele ai friarelli già preparati in un'altra padella secondo la ricetta dei friarelli in padella descritta qui sopra. Servite ben caldo appena le salsicce saranno completamente rosolate.
BUON APPETITO!!!!!!!
Buonissimi w Napoli
ciao Rosaria…che nostalgia mi hai fatto venire,,,quasi quasi ne sento il sapore,non li ho + mangiati da oltre 45 anni,ma ho sempre la speranza di tornare a napoli x farmi passare la voglia…..grazie ciao
Anche in Versilia esiste questa ricetta …-tutto il mondo è paese
mmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmBUONI!
Un bellissimo servizio. Non mi ricordo di averli mai mangiati. E’ da un po’ che non vengo a Napoli. Provvederò appena possibile a colmare questa lacuna.
la gola ugual da pertutto porzia cmq le fritture so gustose de aria assai meno
Rosi,la lettura di “Sacicce e friarielli” mi ha fatto venire tanta malinconia perchè mi sono ricordata dei sapori della mia napoli,per fortuna non li ho dimenticati ……non c’è niente da fare la nostra cucina è all’avanguardia e chi la prova non se ne distacca più.Ti abbraccio
Che bontà, che bontà!!!
Mhmmm!!! A vista direi delizioso piatto, l’Italia è il Paese do sole, do mare, ‘o paese addó tutt’ ‘e parole so’ sempe parole d’ammore, e… di buona cucina!
Sì, Lieta, sono simili alle cime di rapa e la differenza sta nella cottura: le cime di rapa normalmente si lessano prima…i friarielli, no, si “frijano” (si friggono) direttamente nell’aglio e olio e da qui il nome.
gnammmmm…che fame!!solo a guardare.dovrebbere essere squisiti
rosa ciao dalla foto so cime di rapa tuto ben alla prossima