LO SCULTORE DI LEONI
CAP. VII°
L'alba arrivò livida e nebbiosa, non sembrava che gli assalitori avessero immediate intenzioni di attaccare, erano stati accesi enormi fuochi attorno ai quali gli uomini si raccoglievano per scaldarsi, non sembrava che vi fosse grande slancio ed organizzazione, solo gli imperiali si muovevano da tutte le parti del campo.
I vassalli erano usciti dalle loro tende guardavano con apparente tranquillità le alte mura di Mutina, come se quello non fosse un assedio, ma una specie di enorme scampagnata.
Gli armigeri della città erano in continuo allarme, "baffo di rame" era sulla parte alta della torre nord e cercava di avere la situazione sotto controllo. Molti milites della città erano sugli spalti, armati di tutto punto con le loro armature più belle.
Io mi ero posizionato su una bertesca assieme ad altri giovani, ero con Ughetto ed altri delle gilde, pronti ad entrare in azione se qualche pericolo si fosse presentato.
Apparentemente nulla era cambiato nella città, il cibo era sufficiente, in quella stagione problemi di acqua non esistevano e pensavamo di poter resistere all'assalto di qualche migliaio di uomini .
Entro le mura gli armati erano un numero minore, la maggioranza erano cittadini non usi alle armi, ma non si riteneva che il pericolo fosse imminente, la cosa più saggia era attendere.
Passarono alcune giornate senza che nulla accadessei, ogni tanto il capitano di Brunswick si poneva con le ani sui fianchi davanti alla porta est, lanciando invettive e promesse di distruzioni, sempre attorniato dal coro degli armati, che sembravano più ebbri che ardimentosi, dal tanto vino che correva per il campo.
Al sesto giorno di assedio avemmo la sensazione che il nemico si preparasse ad attaccare, vi era una certa disposizione degli uomini, avevano portato l'ariete davanti alla porta ed i vassalli si erano vestiti con armature e ricchi mantelli, erano saliti a cavallo ed assieme agli imperiali si erano posti a semicerchio dietro la truppa urlante, fu il capitano di Brunswick a dare il via all'assalto.
Gli armati vociando e brandendo picche e lance si scagliarono verso le mura portando lunghe scale.
A tutto il frastuono degli assalitori, risposero gli armati Mutinensi con una silenziosa ma efficace selva di frecce, che atterrò almeno una ventina di uomini.
Il primo assalto terminò così, con molte urla e qualche morto e ferito dalla parte degli assalitori, evidentemente espugnare Mutina non era così semplice, questo più che un assalto sembrava un atto di spavalderia, una canagliata degli imperiali.
La mattina dopo un debole sole illuminava meglio la scena, gli armati assalitori erano già in posizione, silenziosi e apparentemente più concentrati. I vassalli e gli imperiali avevano abbandonato i cavalli e si preparavano anch'essi all'assalto con grandi scudi, che avrebbero consentito il riparo dalla gragnola di frecce lanciate dagli spalti.
Quando il sole era già alto, le truppe degli imperiali si mossero in fretta puntando subito le scale contro le mura. Le frecce venivano lanciate rapidamente assieme a sassi contro un nemico ora più lucido e determinato.
Molti furono i colpiti tra gli assalitori, ma anche qualche armato Mutinense fu colpito da frecce e lance.
Il primo assalto fu respinto, ma ben tre scale erano state piazzate contro le mura e l'ariete era stato portato a ridosso della porta.
Ughetto, come sempre uomo di azione e di propositi, consigliò di effettuare una sortita attraverso il cunicolo.
Una ventina di arcieri attraverso questo passaggio, si sarebbero posti alle spalle del nemico prendendolo da due fuochi.
Qualcuno fece notare che poteva essere un'azione suicida, che se i venti arcieri fossero stati uccisi, il nemico aveva un facile accesso alla città. Ughetto disse che la eventualità era remota, che ci si poteva ritirare in fretta nel cunicolo e difendere l'uscita con il minimo sforzo.
Insomma tanto disse e tanto fece, che il capo dei milites e "baffo di rame" gli diedero il consenso.
Ughetto scelse i migliori tiratori d'arco ed alcuni amici fidati, io mi infilai nel gruppo con l'incoscienza della gioventù e con la voglia di grandi imprese e di gloria.
Non dissi nulla a Guglielmo e ad Imelde, che erano nell'interno della città, ma sapevo che se avessi espresso il desiderio di partecipare a questa sortita, avrei spezzato il cuore alla fanciulla e trovate tutte le problematiche possibili da parte del mio vecchio amico, così preferii partire senza avvisare nessuno.
Anche io presi un arco ed una faretra piena di frecce, ero abbastanza abile nell'uso di quest'arma, che avevo utilizzato spesso a caccia.
Ughetto prese una fiaccola e ad uno ad uno ci calammo dal ponte nel passaggio, cercando di non bagnarci nelle scure acque del Modonella.
L'attraversare il cunicolo in una ventina di uomini era decisamente un'altra cosa, chi scivolava, chi si accalcava contro l'altro, l'aria sembrava non esserci in quello stretto e umido budello, ma arrivammo alla pietra di uscita.
Ughetto ci impose il silenzio e pian piano mosse la grande lastra di marmo che copriva la tomba, cercò di vedere senza sporgersi eccessivamente, eravamo a pochi passi dalle retrovie, i mantelli ricamati d’oro dei vassalli brillavano al sole, che si era fatto più splendente uscendo da nuvole fumose.
Sentimmo l'ordine d'attacco e nel frastuono che seguì fu spostata la lastra e ad uno ad uno uscimmo ponendoci al riparo del fossato e degli arbusti che crescevano attorno.
Vedevamo la battaglia svolgersi più avanti, le urla di chi veniva colpito, i fumi dell'olio bollente che veniva gettato dall'alto delle mura, le frecce che sembrava venissero da tutte le parti.
Si ebbe l'impressione di una ritirata o almeno di un riposizionamento delle truppe degli assalitori, Ughetto a quel punto si alzò e gridò "tirate".
Un vassallo fu colpito alla schiena e si girò perplesso prima di cadere, quasi incredulo di quello che stava accadendo.
Tiravamo continuamente frecce e vedendo la nostra azione, anche dagli spalti vi fu una intensificazione dei lanci, che in certi momenti oscuravano il cielo.
Tra le truppe degli assalitori vi furono parecchi caduti ed un apparente sbandamento verso i lati, ad un tratto di lontano si sentì il suono di un corno e il rumore di molti cavalli al galoppo.
Vedemmo dall’alto delle torri fare cenni di giubilo e smettere di tirare frecce e lance, anche gli assalitori ebbero un momento di esitazione.
Dalla curva delle mura a sud della città, dalla strada che porta al monastero di S. Pietro, una densa polvere mossa da molti cavalli si spanse nell’aria, erano gli armati della Contessa Matilde, nei loro mantelli azzurri, forse erano cento, forse erano di più . Gli assalitori frastornati e atterriti, raccolsero in fretta i feriti e sparirono nel bosco di Vaciglio; i più rapidi furono i vassalli, che risaliti sui cavalli fuggirono, senza neppure preoccuparsi dei loro feriti.
Erano rimasti sul campo sono gli imperiali superstiti, ancora con le armi in pugno pronti a combattere, pronti a punire questi ribelli Mutinensi.
Ma dagli spalti e dalle bertesche risuonò alto un "urrà" ed anche noi ci alzammo dai nascondigli alzando gli archi e gridando ringraziamenti a San Geminiano.
I cavalieri di Matilde circondarono gli imperiali, occupando tutto lo spiazzo della battaglia, il capitano di Brunswick, ancora in piedi con una spada in una mano ed una mazza nell'altra, si girava in tondo, come per volere combattere ancora, quasi incredulo della pesante sconfitta.
Quello che doveva essere il capitano dei cavalieri di Matilde, scese da cavallo e si avvicinò al comandante degli imperiali, che era ancora in posizione di attacco, ma pian piano la testa si piegava e le braccia scendevano lungo i fianchi.
Nessuno seppe mai cosa quel cavaliere disse allo sconfitto, noi vedemmo soltanto gli imperiali che recuperavano i loro cavalli e in silenzio li spronavano al galoppo, seguendo la linea delle mura sotto gli insulti dei Mutinensi, per dirigersi poi verso ovest, lontano, forse per non tornare più.
Le porte furono spalancate ed i cavalieri di Matilde furono accolti trionfalmente, portati da Dodone che impartì loro una santa benedizione di ringraziamento.
Nella notte vi furono grandi feste, nella piazza si erano portati tavoli ed anche con il pungente freddo, la gente mangiava e beveva, facendo canti e balli.
Io mi appartai con Imelde, che era con me assai contrariata, per quella che chiamò una bravata e che poteva costarmi la vita.
La città fece festa anche a noi venti arcieri, ma si pensò di chiudere per sempre quel cunicolo, che era stato tanto utile in quel frangente, ma che ormai troppi ne conoscevano l'esistenza.
Il giorno dopo in piazza, il vescovo Dodone celebrò una messa solenne in onore dei cavalieri di Matilde con un Te Deum di ringraziamento per la intercessione di San Geminiano.
Si seppe che i cavalieri erano stati inviati dalla Contessa, avvisata dagli armigeri partiti da Mutina parecchio tempo prima e giunti a Canossa dopo molte vicissitudini, quello che parve miracoloso fu la coincidenza del loro arrivo, con l'evolversi della battaglia e dell'assedio, come se il Santo Protettore non volesse che fosse sparso altro sangue ai piedi delle mura da Lui protette.
Chiaramente se non fossero giunti quei cavalieri, vi sarebbero stati molti morti da ambo le parti e la sorte di Mutina poteva essere segnata, perché si seppe poi che altri vassalli si erano resi disponibili a partecipare all'assedio, con la promessa di terre e saccheggi.
Il giorno dopo, prima di partire, il capitano dei cavalieri di Matilde si trattenne con il Vescovo, i milites più importanti della città, i canonici, i magister e i maggiorenti e si disse che parlò della rivolta delle gilde e della volontà del popolo di porsi a comune.
Disse che i tempi non erano maturi, che questo sarebbe stato un grande affronto alla Contessa, anche se era pensabile una specie di compromesso tra il popolo e la sua Reggitrice.
Disse che tutto poteva essere dimenticato e si doveva pensare soltanto a dare un adatto sepolcro a San Geminiano, che ci aveva protetti e che l'unico scopo per i prossimi tempi era terminare la Cattedrale.
Nessuno azzardò contraddire il capo degli armati della contessa, egli aveva salvata la città ed aveva uniti i Mutinensi sotto la bandiera della Chiesa e di Matilde di Canossa.
Il capitano dei cavalieri tornò sulla piazza grande, dove si erano già schierati i suoi uomini, tra una moltitudine di popolo silenzioso, salì su un cavallo bianco, che era trattenuto da un armigero, alzò il braccio e si avviò con i suoi verso la porta ovest.
Il grande ponte levatoio calò ed i cavalieri di Matilde uscirono tra lo svolazzare dei loro mantelli azzurri.
Il silenzio li fece uscire, poi mille grida salutarono dagli spalti, dalle bertesche, dai prati prospicienti la porta e si innalzò il canto delle scolte in onore di San Geminiano, i cavalieri sparirono verso Cittanova nel freddo di quella mattina di febbraio.
(L'VIII° e ultimo capitolo verrà pubblicato mercoledì 1° Luglio).