
-State attenti a un favvi male- Era la frase che ripetea sempre mi Ma’ a mi Pa. E lu’, tutte le volte la solita risposta: < ‘n ti devi tapinà per nulla, ‘n ti preoccupà, e’ pericoli un ce n’èd e si va sù pianino. Lo sai che la matina presto è sempre fresco e ‘n si vede gnanco un biscio: dòrmino. Si po’ ‘ncontrà qualche ramarro quando siémo ale Fontanelle, ma anco s’èn grossi, èn ciordèllere, un abbocchino. Sta’ tranquilla, te lo riporto ‘ntero.>
Aveimo ‘na selvetta lassù a Pruni di Menco, pigliava il nome da’ pruni neri che crescevino lungo la selve, ma perchè Menco un lo sa nimo: forse d’èra il nome di qualcuno. C’èrino anche de le piante di orbaco: mi Ma’ volea sempre che gli portassimo de le fogliette per mettile ne’ la cendora quando facea il bucato, dicea che: < dàno profumo a’ cenci. Vo’ omeni un podete capì. > Infatti quando facea il bucato, l’agliutavo sempre a fissà il borraccio ale palette dela conca, e sopre ci mettea la cendora co’ le foglie d’orbaco e paioline d’acqua calda, guasi bollita. Quand’èra finito, aprio il pisciarino de la conca e metteo il ranno dentro i conchini: mi Ma’ ci mettea ‘n mollo i calzerotti. Mi Pa’ volea che andassi sempre con lu’ perché imparassi a fa’ la rimonda de la selve: il rusco, servia per le bestie, il farzame s’appilava al calcio de’ castagni e si ricupria di terra col marrello. Era concime per la pianta: no’, quegli spiazzi, si chiamino i ripari. I confinanti faceino uguale: le selve erino tutte pulite. Guai a sconfinà, ognuno stava sul suo.
La nostra selvetta era piccola, ma c’erino diverse qualità di castagni: il Carpinese, il Polpo, la Pelosora, la Chiappina e qualche altra pianta.
Infondo aveimo de’ pollonncelli salvatichi e mazze che mi Pa’ volea innesta’, e m’avea anco insegnato, ma né pigliavo solo qualcuno.
A proposito de le Chiappine, queli della piana fano le mondine con le castagne grosse: un sano che le più bone eno le Chiappine, piccole e sane.
Nel cardo ce né anco sei o sette strepizzate: è per questo che piglino la forma di piccole chiappe.
A metà matinata, mi Pa’ tirava fori dal taschino il roskoffe e dicea: < ora omo si riposièmo e si mangia qualcò. Guarda ‘n po’ nello zaino che ha preparato tu’ Ma’ > Ne la sponda del collettero vicino, Lorè cantava sempre lo steso stornello ala fiorentina: “ Oh muso nerooooo, se vèni a la fontana te lo lavoooo, se vèni a la fontana te lo lavo, col cencio che do’ ‘n terra ti ci asciugo”. Da la Costa terrinchesa, gli rispondeino con altri versi.
Mi Pa’ un si sedea mai, solo un attimo per prillassi ‘na sigaretta di trinciato forte. Gli garbava fa’ i bastoni, e come vedea un frasso dritto lo tagliava e gli facea supito l’impugnatura tonda e la legava al fusto co ‘na vitorchietta e dicea siguro: <Così secca e un si rimove.>
Gli garbava fa’ i bastoni e gli facea sempre de’ disegni: col ferro arrovellito ricamava il costo con strane incisioni che sembravino bisci avvolti. Po’ gli regalava. Anco a me è rimasta questa passione, ogni tanto né faccio qualcuno e lo regalo; ma un eno belli come quelli del babbo.
Ci si preparava per il ritorno e dicea che: <A casa voti ‘n ci si va mai.> Lu’, si facea un fascetto di calocchie, sempre di frasso, perché il frasso un marcisce, più s’è taglio a luna calante. A me dava il compito di fa’ un carichetto di scope femmine per fa’ le granate. Quele maschie un eno bone: en tutte storte. Si scendea piano piano e ogni tanto si pigliava fiato a posatogli. Quando si arrivava a casa la solita cantilena di mi Ma’: < Sei stracco bimbo? > Scrollavo la testa per fa’ capì che’ ero grando.
Le gambe mi tremavino per qualche giorno, perché la discesa tronca anco se hai il carico leggéro. Ma èsse stato una matinata col babbo mi riempiva il core: da lu’ ho ‘mparato tante cose che oggi un si trovino scritte ‘nverunato: gli innesti, la potatura, come si fermino i sassi ne’ muri a secco, martellà la falce e il roncone, arrotà pennati e seguretti, riconosce tutti gli ugelli di quassù e duve fano il nidio, fa’ zùffili e piffere, il gruppo della cava, la tèmpera a le subbie, e tante altre cose che ora un mi venghino in mente.
Aveo sciolto il carichetto de le scope e l’aveo misse ritte al muro, così in poghi giorni perdeino tutti i bimboli e podeo fa’ le granate e granatini: anco per la nonna e le vicine di casa. L’Angiò e l’Oriè, mi davino sempre qualche spicciolo.
Seduto sul ciocchetto nell’angolo della piazzetta, guardavo Montecavallo e il Canale di Picchiaglia che sbucava fra le su grotte, e a sinistra la cima de’ Campacci. Un popoino più giù, la nostra selvetta a Pruni di Menco. E dentro di me, la rivedeo lassù duve ora volavino i falchi, tutta pulita e pronta per accoglie le castagne ne’ ripari che aveimo fatto.
A mi ma’ che m’asciugava il sudore e mi pettinava ho ditto: < La marmellata di fichi neri ch’hai fatto, col pane era proprio bona.> Ha sorriso.
Giulio Salvatori
