scultore  

                  LO SCULTORE DI LEONI  

   

CAP.VI°

Il bosco verso ovest era più rado, spesso si incontravano piccoli acquitrini con boschetti di salici ormai spogli, si sentivano solo gli scricchiolii dei nostri piedi sulle foglie secche e qualche gracchiare di corvo lontano. La marcia era rapida, avremmo proseguito in quella direzione sino ad una radura ed avremmo poi puntato verso sud, verso Mutina. Era già più di un'ora che camminavamo e ormai la radura si doveva scorgere, ora vi erano solo pioppi alti che permettevano agevolmente di vedere abbastanza lontano. Mi parve di notare alcune figure muoversi a distanza, avvisai gli altri e ci riparammo dietro ad un grosso cespuglio di rovo. Attendemmo trattenendo il respiro e dopo poco si intravidero tra i pioppi cinque bambetti che avanzavano accorti, dietro di loro una figura adulta avvolta in un mantello, ci alzammo dal cespuglio e cominciammo a lanciar voci per farci scorgere, i piccoli avvertirono i richiami si fermarono impauriti, poi corsero a grappolo verso la figura adulta, che rimase in piedi ferma, con le mani verso i piccoli come per proteggerli. Avanzammo cautamente e sufficientemente vicino potei scorgere tra le pieghe di quel mantello liso il bellissimo volto di Imelde. Senza indugio mi lanciai nella sua direzione, ed appena mi riconobbe lasciò i piccoli correndo verso di me a braccia aperte. Rimanemmo così abbracciati per qualche istante, con lei che singhiozzava convulsamente sulla mia spalla. "Cosa è successo?" Dissi con concitazione "come mai sei tanto distante dalla casa tua?". Imelde, fra le lacrime, raccontò che la sera prima erano arrivati a cà Baciocca una ventina di imperiali e che avevano ucciso e bruciato, lei era riuscita a radunare cinque dei bimbi di quel contado ed era fuggita attraverso i pioppeti e gli acquitrini, puntando verso la città, aveva attraversato il Secchia, poi forse si era persa ed era arrivata dove noi l'avevamo trovata. Raccontai ad Ughetto di Veriano, della sua ospitalità e degli abitanti di cà Baciocca, rimanemmo così seduti ai margini della radura per parecchio tempo, rifocillammo i bambini, con il pane che avevamo portato con noi, poi decidemmo di andare assieme a Mutina. La città apparve ai nostri occhi, quando ormai scendeva la sera, ci affrettammo per giungere sotto le mura, ancora con la luce. Alla porta nord, non sembrava vi fossero movimenti di imperiali o di altri nemici, Ughetto vedendo un armigero di ronda che ci aveva già scorto gridò chi eravamo e chiese di aprire la porta nella massima fretta. Apparve dopo poco sugli spalti anche "baffo di rame" e subito il ponte levatoio fu abbassato sulle acque nere del canale che porta al Naviglio. Attraversammo in fretta e ci sentimmo sicuri solamente quando tornammo a vedere la grande porta di legno e ferro chiudersi alle nostre spalle. Andammo subito alla fabbrica del Duomo, per cercare Guglielmo ed accasare in qualche modo i bambini di cà Baciocca. Ci attendeva preoccupato, perché già altri del contado erano giunti dentro la cerchia muraria e aveva saputo delle continue scorrerie degli imperiali ed egli aveva temuto per la nostra sorte. Stabilì di portare i fanciulli da pie donne della città, che già accudivano degli orfani e che avevano case accoglienti e disponibilità di cibo e indumenti. I due giovani giunti con Ughetto furono adattati presso la fabbrica del Duomo, dove erano disponibili giacigli caldi e protetti. Chiesi a Guglielmo di poter alloggiare Imelde presso la sua casa, la stanza era enorme e si poteva mettere una tenda per dare alla ragazza un minimo di intimità, poi l'amico capì, che questa giovane donna rappresentava qualcosa di più di una persona messa in salvo dagli imperiali, aveva forse letto nei miei atteggiamenti, da subitanee attenzioni, l'affetto, l'amore, che mi aveva preso . Vi fu una cena frugale e si parlò delle cose accadute e delle cose da farsi, poi tutti ci recammo verso i nostri giacigli per riposare la mente da così turbolente giornate. Quella notte non riuscivo però ad addormentarmi, a qualche metro di distanza, dietro una spessa tenda, riposava una fanciulla che avevo ritrovato e che risvegliava in me passioni forse mai così provate . I suoi dolci occhi, mi erano costantemente davanti, mi pareva bellissima, era bellissima, forse se fosse stata vestita in maniera più consona, avrebbe evidenziato il suo portamento, la sua altezza, le membra di fattezza meravigliosa . Finalmente il sonno arrivò tra questi pensieri d'amore, la notte fu necessario corroborante alla mia mente. L'alba tardò ad arrivare, nere nuvole avevano portato sui tetti della città un leggero strato di neve, rendendo i canali più cupi e le strade più silenziose. Ci alzammo tutti, Guglielmo portò Imelde da Cunizza, la moglie di un sartore, che abitava accanto e che era senza figli ed era ben lieta di avere della compagnia, noi accomiatandoci andammo alla fabbrica del Duomo, con la promessa di rincontrarci la sera. Nella piazza vi era un andirivieni di persone, altro contado era arrivato tra le mura, ma per ora non si vedevano gli imperiali, era certo che si fossero recati dai vassalli della montagna per cercare alleati e porre in assedio la città. Se questo fosse stato vero, avevamo ancora dei giorni per approvvigionare Mutina di scorte di viveri, era impensabile comunicare con altre città, qualcuno pensò bene di inviare con urgenza due armigeri verso Canossa, per avvertire la Contessa, a noi non rimaneva altro se non portare avanti il nostro lavoro di sculptores, come se il terminare la Cattedrale e mettere le spoglie di S. Geminiano in un'arca protetta, fosse in qualche modo rendere più sicura la città. La giornata passò veloce tra schegge di marmo e fatica, era molto che non lavoravo con tanta passione. Tornammo a casa stanchi, ma sereni, Guglielmo disse che saremmo stati a cena da Cunizza e quindi dovevamo riordinarci al più presto. Mentre mi pulivo per la cena, pensavo che di lì a poco avrei rivisto Imelde, ma la immaginavo già come una persona della mia vita, come una sposa e questo pensiero per un giovane pieno di voglia di vedere il mondo un po' mi sconvolse. La casa di Cunizza e Guidotto, così si chiamava il sartore, era molto bella, era attigua alla casa di Guglielmo, ma molto più grande, aveva parecchie stanze ed a pianoterra, proprio vicino al canale Modonella vi era un enorme stanzone pieno di tessuti di ogni genere, in un lato si trovava un tavolo stretto e lungo come tutta una parete dove messer Guidotto ed i suoi lavoranti confezionavano mantelli e tuniche, si diceva che il sartore fosse uno degli uomini più ricchi della città. La stanza dove si teneva la cena era sufficientemente grande, con un tavolo già imbandito da parecchi piatti, giunse Guidotto vestito di una tunica orlata di pelliccia, con lunghi capelli bianchi che facevano contrasto con il rosso del suo indumento. Era un ometto magro che si fregava continuamente le mani, non so se per scaldarle o perché questo era un suo atteggiamento. Aveva un viso allegro e simpatico ed era conversatore vivace. Dopo poco entrò Cunizza, anch'essa con un ampio vestito cremisi e lini di ogni genere, che spuntavano dall'ampio manto, era difficile capire, se questa piccola e rubiconda donna fosse solo molto vestita o se tutto quel volume fosse dato da un enorme seno. Ella ci salutò con un sorriso, poi battendo le mani disse "su vieni Imelde facciamo a questi signori una bella sorpresa". Dalla stanza accanto entrò una splendida fanciulla, che stentai a riconoscere, aveva un vestito ed un manto azzurro scuro, i capelli castani intrecciati e inanellati sulla testa, il viso era pulito e forse reso ancor più luminoso da unguenti preziosi, era l'apparizione di una principessa non della villica di cà Baciocca, anche Guglielmo rimase stupito a bocca aperta ed ebbe qualche timidezza nell'andarla a prendere per mano per portarla al suo scranno. Sinceramente non mi ricordo se quella sera mangiai, rapito come ero a guardare questa fanciulla che avevo baciato e della quale mi ero perdutamente innamorato, era così trasformata, così regale, mi dava quasi una sensazione di gelosia, di difficoltà a parlarle in maniera seria del mio amore. Da quella sera Imelde era rimasta nella casa di Guidotto, adottata da questa brava gente, che l'avrebbero considerata la figlia che sempre avevano desiderato avere. Ella mi accompagnava di buon'ora alla fabbrica del Duomo e poi si incaricava di trovare il cibo per il giorno, in una Mutina sempre più chiusa in sé stessa, nella costante paura di un assedio che sembrava non arrivasse. Passò così quasi un mese, freddo e nevoso, la fabbrica del Duomo era quasi ultimata, i miei leones erano già del tutto scolpiti, dovevano essere solo completati e posti a dimora, intanto continuava il dolce idillio con Imelde, che ogni giorno di più assumeva il suo ruolo di figlia di uno degli uomini più ricchi, era dignitosa e schiva, completamente diversa da quella meravigliosa gatta, che avevo conosciuto tempo addietro. Tutti erano presi dalla sua grazia, dalla disponibilità verso gli altri, Cunizza mi disse che aveva una innata propensione ad adattare i tessuti alle persone e che era diventata la maggiore consigliera di messer Guidotto. Non mi ero ancora attentato a parlare in maniera chiara del mio amore, anche se spesso passavamo ore assieme e se i nostri approcci non erano solo quelli dell'amicizia, ma era più riservata, come se avesse scoperto un nuovo pudore, una rinnovata consapevolezza del suo essere donna e non giovane e selvaggia gattina e questo la nobilitava ancor più ai miei occhi. Frequentava anche la chiesa di S. Giacomo vicino al Canalchiaro, dove parlava il magiscola Aimone e dove ella cercava di imparare a leggere ed a scrivere. Avevo confidato le mie speranze e le mie aspettative a Guglielmo, che metteva sempre innanzi a tutto il fatto che io ero uno sculptore e che mi sarebbe stato difficile mettere le radici in un posto, ma non nascondeva una grande simpatia per Imelde ed aveva certo capito il sentimento reciproco che ci univa. Verso l'inizio di febbraio arrivarono alcuni del contado del Campo dei Galli, che purtroppo confermarono la nostra paura, che di cà Baciocca gli unici che si erano salvati erano Imelde ed i cinque bambini. Ella rimase per parecchi giorni in un triste torpore, piangendo in continuazione, non aveva ancora persa la speranza di rivedere vivi i genitori ed i parenti. Le giornate passavano in un continuo lavorare, rafforzare le difese esterne, ampliando le scorte e cercando di finire al più presto la fabbrica del Duomo. A Lanfranco, grande architetto dell'opera, era aumentata la frenesia di terminare, voleva che si apprestasse quanto prima il sepolcro, perché temeva per le spoglie del Santo e per una loro probabile profanazione. Si toglievano le travi di supporto dei falsipiani, si lustravano i marmi, molte delle metope fatte da Guglielmo erano già state poste a dimora, i miei leones erano già stati posti davanti alla porta e si stava terminando l'archivolto. Il Duomo stava uscendo dalla grande scatola di legni e di strutture, che lo circondavano e che ne avevano permessa l'edificazione e definitivamente appariva il suo grande splendore, la magnifica struttura, la mole imponente. Anche gli uomini delle gilde, Ughetto in testa, avevano apparentemente perso il furore delle loro idee, pensavano ora, solo a terminare la loro Cattedrale per proteggere il Santo Patrono, per dare alla città un emblema di santità, di unità e di forza, che avrebbe protetto tutti da ogni possibile calamità. Si pensava che San Geminiano, vedendo tanta devozione e tanta magnificenza in suo onore, intercedesse maggiormente per la sorte e la difesa dei Mutinensi. Speravano che il Santo ripetesse i miracoli già fatti all'epoca dell'unno Attila, avevano la certezza che la devozione e la fatica sarebbero state premiate. Questa forzata clausura nell'ambito delle mura, aveva consolidato le amicizie e la solidarietà tra i cittadini. Ci si trovava sempre la sera al termine del lavoro dopo la cena, che diventava sempre più frugale, per cantare lodi a Dio, si ascoltavano lunghi sermoni dei sacerdoti e spesso noi giovani ci incontravamo per parlare di eventuali assedi, di strategie e di difese. In una mattina fredda di metà febbraio si sentì l'urlo di pericolo della sentinella della porta est, suonarono i corni di raccolta ed in poco tempo tutti gli spalti ad est della città furono pieni di armati e di popolo. Io saltai dal giaciglio e vestitomi in fretta mi precipitai con Guglielmo proprio alla porta est, che distava dalla casa poche centinaia di passi. Salimmo sulle prime bertesche in tempo per vedere uscire dalla boscaglia di Vaciglio il primo manipolo di armati. Erano certamente uomini dei vassalli del Frignano, saranno state alcune migliaia, pochi a cavallo, la maggior parte con lance e picche, alcuni buoi trascinavano una piccola ariete, formata da un grosso tronco sospeso da canapi ad un affusto con ruote. Vi erano anche parecchi carri che portavano probabilmente vettovaglie e tende. Appena questi armati furono sotto le mura cominciarono a vociare alzando le lance, questa provocazione verbale durò poco, perché arrivarono dei milites, forse gli stessi vassalli, riccamente bardati, che diedero ordini e si cominciò a vedere preparare il campo d'assedio. Dalle mura nessun grido, nessuna invettiva, eravamo tutti fermi e cercavamo di contare gli uomini, constatare gli armamenti, arguire le posizioni degli accampamenti. Più che armati veri e propri, sembravano pastori, avvolti in pelli, con elmi di vario genere, con parecchi tipi di armi, soltanto un centinaio avevano cotte di color arancio scuro con armature ed elmi della stessa foggia, qualcuno arguì che forse erano gli armati dei vassalli di Renno. Per tutta la giornata arrivarono armati alla spicciolata, alla fine si era formato un accampamento di parecchie migliaia di uomini, che già avevano posto le tende a ridosso del bosco di Vaciglio e verso il bosco del lupo, in un arco che prendeva tutta la parte est di Mutina. Verso sera, quando la luce si era fatta azzurra ed i colori più spenti, arrivarono con altri dieci vassalli riccamente vestiti, i cavalieri imperiali, erano un centinaio ed erano comandati dal capitano di Brunswick. Questi uomini in atto di grande spavalderia non si fermarono, ma effettuarono varie volte il giro delle mura est, sotto le grida dei loro armati che si erano posti con sfida fino sotto la porta. Questa manovra durò parecchio, anche quando le torce erano accese ed il buio era sceso sulla città. Passammo la sera a sentire i canti e le urla degli assalitori, credo che nessun Mutinense dormì quella notte, eravamo tutti sugli spalti a guardare, osservare, fare congetture, cercare di riconoscere il nemico che l'indomani ci avrebbe assalito.

 

(segue, lunedì 29 Giugno)

2 Commenti a “LO SCULTORE DI LEONI, VI° CAPITOLO…..di Franco Muzzioli”

  1. sandra vi ha detto:

    Il racconto si fa sempre piu’ interessante ed avvingente ,e; un piacere seguire e condividere la storia dei nostri protagonisti ,condividerne la sorte che li attende

  2. lucia1.tr ha detto:

    Una scelta interessante e non facile, quella della lettura condivisa, anche una lettura seria può diventare un gioco e a giocare ci si diverte. Aspetto con curiosità ogni nuovo appuntamento, sempre un piacere scoprire le storie del nostro giovane protagonista, hanno la bellezza di tutte le cose che narrano e il limite di quelle ancora non scritte,sempre un piacere nutrire la mente!

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