Vista la positiva accoglienza di questo progetto e l'alto gradimento dimostrato dai lettori eldyani, ho deciso di pubblicare tre capitoli a settimana, soprattutto per non far intercorrere troppo tempo tra una lettura e l'altra (inutili tempi morti..). Considerato che chi inizia a leggere un capitolo solitamente lo termina nel giro di poco tempo vado immediatamente a pubblicare il secondo interessante capitolo. Oltretutto la lettura di questo libro-racconto di Franco è scorrevole e particolarmente avvincente. Porta il lettore a desiderare di andare oltre, suscitando la curiosità del  "cosa succederà adesso...?" e "come andrà a finire..?".

Buona lettura a tutti!

 

       LO SCULTORE DI LEONI

  scultore  

CAP. II°

Il paesaggio ora si inframmezzava a tratti paludosi ed acquitrini puliti come da acqua sorgiva, avevo sentito dire che nei dintorni di Mutina fonti sgorgavano naturalmente e solamente a forare con trivelle lunghe un paio di braccia, usciva tant'acqua da creare un piccolo bacino. Questi luoghi erano ricchi di salici leggiadri, che lambivano le acque con i loro rami flessibili dalle foglie piccole e strette , che in questa stagione prima di spogliarsi, diventano gialli come l'oro, così come i pioppi e tutto pareva oro in quella tersa luce del mattino. Camminai per mezz'ora e finalmente scorsi i primi argini di questo fiume padano. I saldini, così chiamati i tratti pianeggianti fuori dall’argine, erano stracolmi di piante di vite, carichi in parte di uva non ancor vendemmiata, era certo l'uva più nera che mai avessi visto, quella che dava quel brusco vino spumeggiante bevuto a cà Bacciocca. Non vidi nessuno aggirarsi per il sentiero e scavalcato l'ultimo argine, mi apparve in basso il sinuoso tracciato del Secchia, dalle acque lente ed imbiondite dal sole. Poco distante dalla riva vi era una capanna di foglie e rami intrecciati e sull'acqua a qualche spanna dalla riva, tenuta da un grosso canapo, galleggiava una zattera formata da quattro grossi tronchi fermati da robuste corde intrecciate. Un uomo dai capelli grigi, lunghi e scomposti, era seduto all'ingresso della capanna e con apparente attenzione intagliava un legno. Non sollevò la testa finché non gli fui davanti. "Posso attraversare il fiume?" chiesi con garbo, lui finalmente mi guardò facendo vedere un viso orrendo, completamente butterato dal vaiolo e ammiccò ad un sorriso tristo con i pochi denti rimastigli in bocca. "Sei stato fortunato, pellegrino, oggi vi sono soldati che gironzolano per queste contrade e certi compari non sono a mangiar uva nei saldini se no non ti sarebbe rimasto un pezzo di stoffa sulla pelle". Non raccolsi questa minaccia, ma gli chiesi quanto voleva per varcare il fiume, il traghettatore chinò il capo per pensare, ma lo anticipai offrendogli il vino, evidentemente quella bevanda doveva essere il suo più grande godimento, perché accettò subito ed anzi appena avuta la borraccia in mano ne bevve un sorso con voluttà. Mi fece poi salire sulla zattera, staccò il canapo e con un lungo bastone fece leva sul fondo limaccioso e in pochi minuti attraversammo. All'altra sponda, saltai in fretta dalla zattera e senza voltarmi mi accomiatai da lui con un "salvete". Dall'alto dell'ultimo argine si vedeva, tra filari di alberi, la vecchia strada Aemilia e di lontano si scorgevano fortificazioni. Non ci misi molto a metter piede sulle sconnesse lastre della strada romana, ancora a tratti contornata da tombe; avevo da poco iniziata la via consolare, quando da lontano sentii uno scalpitio di cavalli e vidi una nube di polvere, mi accostai ad una tomba e mi nascosi dietro di essa, in pochi minuti il drappello mi passò davanti, senza accorgersi della mia presenza. Erano una decina di cavalieri con maglie di ferro e cotte rosse con un'aquila ricamata sul petto, avevano grosse spade infilate in else di cuoio appese alla sella, andavano di fretta evitando il lastricato della strada per non azzoppare i cavalli e preferendo il sentiero di lato. Erano gli imperiali, dei quali mi aveva parlato Veriano. Ora che la Contessa Matilde aveva ricevuto dall'Imperatore stesso la qualifica di "Regina d'Italia", non dovevano esserci più lotte, ma Matilde rimaneva pur sempre la figlia prediletta della Chiesa e l'Imperatore non aveva dimenticato Canossa e pertanto anche se riponeva stima sulla Contessa temeva i Vescovi eletti dal popolo e più dei Vescovi temeva questo popolo che diventava sempre più unito e quindi sempre più potente, edificava attorno alla sue città mura sempre più forti ed imprendibili e nulla potevano i Vassalli creati dall'Imperatore, arroccati nei loro castelli di montagna, che ancor oggi, molte volte spadroneggiano attorno alle loro contrade, con soprusi e depredazioni. Ecco perché le città si stavano facendo potenti ed in qualche modo indipendenti, appoggiandosi alla Chiesa e a chi portava il suo vessillo. Gli Imperiali erano venuti per vedere le fortificazioni di Cittanova e infatti questo avamposto di Mutina ora mi si presentava in tutta la sua possanza, un grosso fossato correva attorno e solo la via Aemilia entrava dentro le mura basse sormontate da una enorme palizzata. Due torri con bertesche e camminamenti erano a lato della grossa porta, che sbarrava l'accesso alla cittadella. Parecchi soldati con elmi e lance erano sugli spalti, non certo per vedere me povero viandante, ma per assistere alle evoluzioni degli imperiali, che certamente avevano percorso in lungo e in largo le mura per vedere ciò che dovevano , per poi riferire. Arrivai sotto la porta ed a voce alta dissi chi ero, senza cerimonie due armigeri aprirono il grosso portone facendomi entrare. Il borgo era abbastanza grande, con ruderi romani all'interno ed una piccola chiesa in sassi e lastre di marmo sulla facciata spoglia, poi parecchie capanne di legno più grandi e meglio costruite di quelle di cà Baciocca. In mezzo al borgo vi era una piccola piazza con un pozzo in sasso, la via Aemilia percorreva il borgo e veniva ancora sbarrata da un altro portone meno imponente di quello che mi aveva ricevuto. Mi venne incontro il capo degli armigeri, dalla cotta arancio con un grosso cinturone di cuoio con borchie di ferro al quale era appesa una corta spada, quasi un gladio, in testa portava un elmo senza particolari fronzoli. Era un uomo sulla cinquantina, abbastanza alto, forse della mia statura, ma enormemente più robusto, con grandi baffi alla longobarda di un marrone rossiccio screziati di grigio, la sua faccia aperta esprimeva durezza, ma simpatia. Con ironia disse "sei tu dunque lo sculptore che attendiamo?... ma chi me lo garantisce?", il suo dubbio tipicamente militare doveva essere chiarito se volevo giungere a Mutina. Con un sorriso sarcastico presi il plico che avevo appeso alla cintura, lo liberai dalla tela che lo copriva e srotolai la pergamena, esposi così i miei disegni all'occhio stupito di "baffo di rame" e tolsi dal centro del rotolo una pergamena più piccola con un sigillo di ceralacca rossa e lo porsi al capo degli armigeri, evidentemente questi non sapeva leggere, ma riconobbe immediatamente il sigillo del Vescovo Dodone e questo gli bastò, mi rese con deferenza la pergamena e attese paziente e silenzioso che riordinassi il mio plico e lo riappendessi alla cintura. Poi mi disse se volevo attendere un poco per rifocillarmi, ma gli feci capire che volevo raggiungere al più presto Mutina. Fece sellare due cavalli dicendo "sono poche miglia, un tiro di balestra, ma se tu ti incamminassi a piedi, impiegheresti ore , pertanto a piccolo trotto faremo in un attimo e poi un personaggio come te “ e qui calcò la voce” deve essere scortato. “ Montammo a cavallo ed uscimmo fuori dalla porta Est. La via Aemilia in quel punto era diritta come un fuso ed alberata, piena di tempietti romani in rovina e vecchie tombe, già appena varcata la porta est, in lontananza si potevano immaginare le mura della città, che dopo poco apparvero in tutta la loro magnificenza, erano mura alte in mattoni scuri, come le terre arate che si incontrano in questi luoghi, qualche merlo a capo chiuso e larghi corridoi di ronda, con scale e rampe per accedervi. Si sviluppavano soprattutto a sud della via Aemilia con torrioni possenti di recente fattura, che ne sottolineavano ancor più la grandezza. Due vessilli sventolavano sui torrioni della porta, erano di un giallo intenso con una croce azzurra, erano gli stendardi di Mutina. Il fossato era molto ampio, quasi un grosso canale e da questo si dipartivano altri piccoli corsi d'acqua che si perdevano nei campi. Si immaginava che Mutina fosse percorsa da canali, vedendo l'acqua scorrere così velocemente all'esterno. Il ponte levatoio era massiccio e poteva portare quattro cavalieri a cavallo allineati, era irrobustito da grosse spranghe di ferro ed imbullonato con enormi chiodi. "Baffo di rame" fece solo un gesto ampio con la mano, che fu subito riscontrato dalla sentinella che guardava da una bertesca sulla porta e poco dopo con cigolii sinistri il grosso ponte mobile si posò davanti a noi, lasciando aperta questa grande finestra sulla città e quella prima immagine mi rimase impressa negli occhi. In fondo si distingueva bene la mole della fabbrica del Duomo, già biancheggiante di marmi e accanto una torre a pianta quadrata, anch'essa bianca come la grande Basilica. Attorno case di mattone scuro e tetti in legno, ponticelli che facevano immaginare diversi corsi d'acqua e gente indaffarata che si muoveva ovunque. Entrammo con una certa lentezza, "baffo di rame" con la coda dell'occhio guardava sorridendo il mio ammirato stupore, disse solo sussurrandomi quasi all'orecchio "È bella la nostra Mutina vero?", io lo guardai e sorrisi assentendo con la testa e con un movimento largo della mano. Ci fermammo al posto di guardia, "baffo di rame" confabulò con un armigero che indossava un usbergo di maglia di ferro coperto da una corta tunica aperta ai lati, gialla con una grossa croce azzurra sul petto. "Baffo di rame" mi si avvicinò e disse "questo è Marco, capo dei milites della porta ovest, ti accompagnerà lui dal Vescovo Dodone, io devo ritornare a Cittanova, arrivederci sculptore, lavora bene" io gli allungai la mano e lui mi passò una pacca con la sua, segno di grande amicizia, rimontò sul cavallo e uscì dalla porta, che immediatamente rinchiuse il suo varco. Marco, giovane sui trent'anni dal bell'aspetto e dai corti capelli alla franca, mi invitò a seguirlo. Percorremmo una piccola strada costeggiata da un grosso canale maleodorante, attorno solo piccole case di legno ben fatte e magazzini pieni di sacchi di grano od altre derrate, arrivammo poi al nucleo centrale della città dove sorgeva oltre alla fabbrica del Duomo, la torre del popolo, il palazzo del Vescovo, e una grossa fortificazione chiamata castellaro, le case erano quasi essenzialmente in mattoni contornate da portici sotto i quali si aprivano le botteghe degli artigiani e dei commercianti. Più di un canale attraversava Mutina e qualche lenta chiatta li percorreva per portare marmi e mattoni. Il Mutinense è popolo indaffarato, ti guarda di sottecchi mentre passi, quale straniero, ma poi continua imperterrito a fare il suo lavoro, è gente generalmente tozza e robusta come i villici di cà Baciocca. Arrivammo in poco tempo al palazzo del Vescovo e Marco, sempre avanti a me di qualche passo, parlò con gli armigeri che facevano la guardia all'ingresso. Prontamente ci scortarono in un ampio cortile interno, poi in una vasta sala completamente affrescata alla maniera di Bisanzio, in fondo vi era un piccolo scranno di legno dorato, gli armigeri salutarono con un cenno Marco e si allontanarono lasciandoci soli. Passò qualche minuto, poi da un portone a lato dello scranno entrarono quattro uomini anziani dalle lunghe tonache marroni con mantelli azzurri, dietro, con un mantello cremisi orlato di pelo bianco entrò Dodone. Era uomo alto con il viso squadrato e senza sorriso, sembrava completamente calvo e portava in testa il copricapo rosso dei vescovi. Si sedette e mi chiamo a sé con un gesto "Quindi tu saresti Solerio figlio di Agidulfo; il tuo maestro Guglielmo o Wiligelmo come lo chiamate lassù tra i vostri laghi, mi ha parlato molto bene di te. Noi ci aspettiamo cose importanti ed in tempi brevi, dato che il nostro architetto Lanfranco, piissimo, vuol traslare la sacra spoglia del nostro S.S. Protettore entro qualche mese, benché la Basilica manchi ancora di parecchie cose" e dicendo questo si rivolgeva agli anziani giunti con lui, che assentivano, allargando le braccia, con segni di sufficienza. Dodone disse ancora "questi che vedi sono i quattro canonici più anziani, essi dovranno controllare sempre il vostro operato e tu giovane sculptore ascolta sempre i loro saggi consigli, essi parlano per mia bocca e per bocca di tutto il popolo" "tu miles vai a cercare Lanfranco e Guglielmo e portali con celerità da noi". “Giovane Solerio, penso avrai fatto qualche disegno dei tuoi leones? se è così mostraceli". Assentii con un sorriso e lentamente srotolai il plico, e facendo questo, lasciai cadere la pergamena dov'era il suo invito, egli ne riconobbe il sigillo e disse "Tieni sempre con te quella pergamena sarà la garanzia del tuo lavoro", la raccolsi e la posi con cura in una tasca della tunica, mostrai poi i disegni al Vescovo ed ai Canonici. Subito vi furono esclamazioni di compiacimento e di approvazione " i tuoi leones orneranno la porta sulla piazza dove si raduna il popolo e dove si entra nella Basilica per le grandi funzioni". "Spero di essere degno del vostro entusiasmo, ma sotto la guida del Maestro sono certo che potrò darvi le soddisfazioni che chiedete". Mentre eravamo in queste attente considerazioni, di come disporre i leones e di come abbellire le colonne, si aprì la porta ed entrò Wiligelmo, alto e magro uomo del nord, dalla spaziosa fronte e dai pochi capelli grigi fluenti sulle spalle. Appena mi vide il suo viso si aprì in un lieto sorriso e senza neppure salutare Dodone, mi corse incontro e mi abbracciò restando in quella posizione per qualche momento, poi quasi schernendosi si rivolse al Vescovo "scusate se solo ora vi saluto, ma questo giovane lo lasciai che misurava una spanna in meno ed è come un figlio per me" "non ti scusare Guglielmo, siamo ben lieti di questi sentimenti e siamo soprattutto lieti di avere tra di noi, uomini così nobili e validi, ora giovane Solerio ti presento Lanfranco grande architetto ed edificatore del nostro Duomo" si fece avanti questo famoso magister dalla corta barba color del castagno dalla fronte stempiata e dai capelli sempre dello stesso colore tagliati al di sotto delle orecchie, portava la tunica di canonico con il manto azzurro e portava in mano la virga, strumento che gli serviva per misurare, ma che rappresentava soprattutto l'emblema del suo potere. Sembrava uomo altero e di poche parole, pieno del suo incarico e delle tante lodi a lui intessute, diverso dal mio maestro, con quel viso sempre sereno e le mani incallite per aver tenuto troppo in mano martello e scalpello. Lanfranco disse solamente "spero che il vostro discepolo, caro Guglielmo, ci dia la possibilità di affrettare il nostro compito, S. Geminiano non può continuare ad essere adorato in una chiesa che sta cadendo da tutte le parti e di cui chiunque potrebbe violare l'arca dove riposa". Dodone assentì più volte con la testa, più per noia che per la necessità della cosa. Dodone poi ci diede la benedizione e si accomiatò da noi, lasciandoci nelle mani di uno dei canonici, il magis scola Aimone, noto insegnante e consigliere del Vescovo. Uscimmo dal palazzo e assieme a Lanfranco ci recammo alla fabbrica del Duomo per mangiare con gli operari e gli artifices, dato che da parecchio era giunta per me l'ora di pranzare. Il mio buon Guglielmo, come ora lo chiamerò anche io, dato che così lo chiamano tutti i mutinensi, mi prese sottobraccio e assieme ci incamminammo sull'acciottolato della piazza verso il grande Duomo. Ci portammo subito in una grande costruzione in legno addossata ad un lato della Basilica. Era alta quasi quanto la Chiesa, con grosse travi di sostegno per il tetto che si incuneavano in parte tra i marmi. Era piena di mille attrezzi e di diversi pagliericci sparsi ovunque, in un punto di maggior luce vi erano lastre e pezzi di marmo ancora da posare o da scolpire. Due uomini dalle barbe incolte e da lunghi berretti di lana stavano mangiando accanto ad un focolare di pietra. Ci avvicinammo e con un sorriso ci invitarono a sedere. "Vedi Solerio, questi sono due operai scelti al servizio di Lanfranco e mi pare siano anche loro di Lombardia" i due uomini assentirono con la testa, ma continuarono a mangiare ormai avvezzi a veder sempre gente nuova andare e venire per la Fabbrica. Anche io presi pane e carne seccata e salata, bevendo il solito buon vino frizzante e rosso come il sangue di bue. Mentre mangiavamo Guglielmo parlò a lungo delle varie opere architettoniche che stavano nascendo, delle quattro porte, dall'immenso coperto formato da lunghe travi intagliate, dai mille marmi romani, recuperati dai templi pagani siti in Mutina e addirittura sotto la Basilica stessa. La vecchia chiesa di S. Geminiano era poco distante ed anche questa era miniera di marmi e pietre. In quel momento gli uomini erano già al lavoro, infatti si sentiva rumore di carrucole e picconi, solo i due uomini di Lanfranco, ultimi a lasciare i lavori, ora si rifocillavano con frugalità. Passammo tutto il pomeriggio tra ponteggi e piani inclinati, ad ammirare gli artigiani che si affaccendavano in maniera chiassosa. Molti Mutinensi prestavano gratuitamente la loro opera, artigiani che lasciavano il loro lavoro e con devozione prendevano piccozze e magli, spatole e martelli e si affaccendavano nell'arte a loro più congeniale. Mi diceva Guglielmo che un tal Gregovio della gilda dei macellai si era scoperto ottimo intagliatore di legni ed ora, per volere di Lanfranco e di Dodone, era fisso ad intagliare figure sulle travi a vista. La sera venne presto e vi fu un altro pasto frugale, questa volta a base di verdure ed uva, poi Guglielmo mi invitò nella sua casa nei pressi del vicolo degli scarpari. Attraversammo un piccolo ponte di legno su uno dei tanti canali maleodoranti di Mutina e ci inoltrammo in un dedalo di piccole viuzze con case in mattoni, dai tetti in legno e paglia.

 

(segue - venerdì 19 Giugno)

3 Commenti a “LO SCULTORE DI LEONI (capitolo II°)…..di Franco Muzzioli”

  1. gianna ha detto:

    Franco Muzzioli”è molto interessante leggere per sapere la storia dello “Scultore Di Leoni,aspettiamo con ansia la III Puntata)ciao..

  2. armida.ve ha detto:

    Interessante e affascinante. Aspetto la prossima puntata

  3. Giulio Salvatori ha detto:

    Mi sorprende la sicurezza dell’Autore del testo con la quale “si colloca” in un tempo così lontano. La padronanza e la conoscenza storica degna di una reale/fantasia.Si annusa fra le maleodoranti acque la pressione del basso ceto che sempre più si avvicina , oserei dire, alla casta di quel periodo. Quella religione forte sui deboli.E qui mi riallaccio, anche per avere una continuità col precedente mio commento, alla famiglia dei Medici che premeva sulle spalle di Michelangelo…

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