Quando la prof. di “Storia dell’arte” ci ha chiesto se eravamo d’accordo a fare una lezione “in campo” espatriando oltre confine e ci ha proposto Genova, ho esultato di gioia. Per una innamorata dell'arte, come me, è entusiasmante assistere a interessanti spiegazioni fornite con dovizia di particolari corredati da stupende immagini mirabilmente descritte da chi l’arte la pratica 365 giorni all’anno e te la “condisce” con fervore e passione da sublime esaltazione, ma ancor più inebriante è “toccare con mano”, cioè guardare dritto dentro le opere, e questo si può fare solo andando di persona, a visitare mostre e musei che la espongono. Così, in un gruppetto, nei giorni scorsi ci siamo recati a Genova a Palazzo Ducale. Prima di accompagnarvi all’interno della mostra, però, vorrei illustrarvi brevemente la magnificenza di questa costruzione medievale che si trova in Piazza De Ferrari, nel cuore di una splendida città come Genova tanto generosa quanto fornita di nobili e prestigiosi palazzi storici. Sicuramente molti di voi la conoscono già come conosceranno Genova, ma a me, che ogni tanto ci ritorno, trasmette ogni volta diverse ed appassionanti sensazioni. Genova è magica, bella sia di giorno con la luce naturale che si infiltra tra gli eleganti palazzi storici di Via Garibaldi e ne illumina i magnifici soffitti stupendamente affrescati, sia di sera quando le luci dei lampioni disegnano incantevoli ghirigori sulle facciate delle case, silenziose testimoni di un fastoso passato e di una cultura storica e contemporanea di grande rilievo. Passeggiare tra l’architettura barocca che i sostenitori del neoclassicismo europeo consideravano di cattivo gusto è come scoprire, ad ogni angolo una nuova dimensione. Infilarsi nei caruggi tra i quali perdersi, ammirare estasiati le stupende piazze circondate da sontuosi palazzi dalle linee curve, a volte irregolari ma contemporaneamente fantasiose, auliche ed alquanto eccentriche impreziosite da decori, sculture e stucchi che ne aumentano il concetto di capolavori assoluti. Questa, e tanto altro ancora, è Genova. Dell’architettura di Palazzo Ducale, di origine medievale, si può parlare come di un insieme di diversi stili risalenti ai periodi Medioevo, Tardo Gotico e Rinascimento. Per cinque secoli sede dei Dogi della Repubblica di Genova, oggi è il più  importante polo museale e monumento di grande splendore dell’antica repubblica marinara. Sempre al periodo medievale risale l’adiacente Torre Grimaldina, usata, sin dal ‘400, come carcere per prigionieri politici, cospiratori e nobili in attesa di riscatto. Sul finire del Cinquecento il Palazzo fu riedificato realizzando cortili interni porticati che fiancheggiano il grandioso atrio coperto. Negli ambienti interni e nelle sale superiori si possono ammirare prestigiosi cicli di affreschi che, attraverso l’allegoria della  pittura evidenziano la finalità evocativa della magnificenza e dello splendore genovesi.

Ma ora entriamo nella mostra per la quale sono arrivata fin qua: “VAN GOGH E IL VIAGGIO DI GAUGUIN”.

Le opere esposte sono quasi un centinaio e non potrò presentarvele tutte, mi limiterò a descrivere quelle che più significativamente hanno rappresentato il filo conduttore dell’esposizione. La mostra vuole condurre lo spettatore attraverso la vita artistica di questi due grandi Impressionisti (o meglio, post-impressionisti), Vincent Van Gogh e Paul Gauguin e scandirne i momenti importanti che hanno intrecciato le loro vite  segnate dall’inquetudine, dalle reciproche sofferte vicende, e dalle comuni angosce. Vite parallele, ma spaiate che, modificate dai caratteri – spesso negativi – di questi due grandi artisti, convergono ad inciderne i destini. Il termine “impressionista” agli inizi del 1874 veniva usato, a Parigi, in modo spregiativo dai critici dell’epoca che sostenevano che quelle macchie, definite dagli artisti “impressioni” erano prive di meditazione, superficiali, quasi abbozzi non degni di diventare pittura. Ecco che, pochi anni dopo, alcuni “impressionisti” applicando alla pittura un metodo scientifico, constatano che, accostando un colore all’altro, anziché mescolarlo, si ottiene una luminosa esaltazione. Queste intuizioni rivelano l’importanza del rapporto luce-colore nell’espressione della realtà. Nasce così la teoria del colore che approfondisce studi sul metodo dell’accostamento su tela dei colori, così da credere che alla scienza non si possa porre alcun limite.

 VINCENT VAN GOGH

 Autodidatta, spirito inquieto, dipinge per necessità interiore trasfigurando la realtà a favore del proprio “io”. Trasforma il colore reale in colore “suggestivo” lo imprime con maggior forza fino a trasfigurarlo in estrema emozione.  Amava il colore giallo, che in seguito ritornerà prepotente a tracciare un percorso nella sua vita (avete presente girasoli, campi di grano..?)  e non a caso la sua “Camera da letto” è gialla, all’interno di una casa anch’essa gialla. Questo è il primo impatto con la mostra.  Si potrebbe pensare ad una mente serena, libera da tensioni, invece l’ambiente, precario e instabile, esprime angoscia, nel quadro che ne comprende la rappresentazione a segni decisi dei mobili, tinte stese grossolanamente dai colori spezzati, chiaro segno del vissuto barcollante e, a volte drammatico, del suo errare alla ricerca di sé stesso e dell’essenza dell’umano contenuto di ciò che sente e che rappresenta. Ma il tormento di Vincent non avrà più fine. Incontrato, casualmente Paul Gauguin, cade preda di un’incontrollata ammirazione per questo artista che lo porterà, in seguito a compiere atti di umana follia sconfinati in tragiche realtà. Si fa così strada in lui il progetto di indurre Paul a trasferirsi con lui nel Sud della Francia dove avrebbero avuto a disposizione nella tavolozza naturale la ricchezza di colori che soltanto il sole può regalare. Gli chiede umilmente  di accompagnarlo. Insieme, insisteva, sarebbero stati in grado di dare inizio ad una scuola degna di raccogliere l’eredità dell’Impressionismo. Nell’ansia devota di compiacere Paul, Vincent si poneva in secondo piano, offrendogli il ruolo di caposcuola con un commovente desiderio di farglielo accettare. Ma Paul, ancorché si sentisse lusingato da tanto fervore e ammirazione, non era attratto dall’idea di restare solo col povero Vincent sempre in preda all’eccitazione e giustificava il suo ritardo nella partenza con la scusa della mancanza del denaro necessario per il viaggio. Sarà il fratello Theo, mosso da grande affetto per Vincent e fortemente preoccupato per l’instabilità emotiva che traspariva dalle lettere che il fratello gli inviava descrivendo la propria condizione a toni sempre più cupi, a risolvere i problemi economici di Paul, vendendogli alcune tele, offrendogli più denaro di quanto ricavato, permettendogli così, di affrontare il viaggio senza più trovare scuse per rimandare.  Ed ecco che ritorna l’inconfondibile giallo solare, quasi come una rinascita per il povero Vincent che, giunto al parossismo dell’attesa, sembrava far dipendere da Paul ogni speranza di felicità. Decora le pareti della stanza che avrebbe accolto Vincent, con quegli enormi girasoli che sembravano creati apposta per propiziare la sua venuta.   Ma la loro breve convivenza verrà  messa in conflitto da turbolente discussioni sulla pittura, da prese di posizione reciproche e da “preferenze” dell’uno e dell’altro sempre discordanti (Vincent era un romantico, Paul un primivito). Il nervosismo di Vincent, la sua gelosia, il timore che l’amico si stancasse e se ne andasse scatenarono una situazione insostenibile, al termine della quale Paul decise veramente di partire e abbandonare quella drammatica convivenza che ormai doveva considerarsi un fallimento. Vincent, disperato dall’ennesima sconfitta e dalla durissima realtà che l’avrebbe fatto ripiombare nella solitudine, subì un crollo devastante. Capiva di non essere normale e di non suscitare nel prossimo reazioni normali. Tutti i rapporti  che aveva tentato di allacciare si erano frantumati di lì a poco, donne e uomini che si era disposto ad amare  l’avevano respinto, soltanto il fratello Theo era disposto a comprendere. Ma Theo non bastava a contenere l’enorme flusso di sentimenti di cui Vincent era capace, così, con la consapevolezza della sua condanna alla pazzia, commise il gesto che tutti conosciamo.  Si tagliò il lobo di un orecchio e, coperta la testa con un berretto, corse in una casa di tolleranza che entrambi solevano frequentare e consegnò il macabro “reperto” ad una ragazza perché lo recapitasse a Gauguin.    In una delle sue ultime tele “IL CAMPO DI GRANO CON VOLO DI CORVI” i colori sono violenti e senza dubbio la sua arte ingloba tutto il suo agitato e complesso mondo interiore.    

PAUL GAUGUIN

 Pittore, si direbbe, quasi per caso essendo rimasto fino all’età di 23 anni a bordo di navi che l’hanno arricchito di quasi sole esperienze marinare. Fortunatamente incontrò un collezionista di opere d’arte, Gustavo Arosa che lo introdusse nel mondo della pittura presentandolo a mercanti d’arte, accompagnandolo a mostre e gallerie e facendogli fare la conoscenza di pittori dilettanti e non. Fu così che Paul da irrequieto giovanotto un po’ scapestrato e ribelle divenne l’artista creativo e intelligente trasformando il suo dipingere nella sola ragione di esistere. Ma non divenne mai un uomo tranquillo né mai un tranquillo marito per la povera Mette, di origine danese e con un carattere indurito dalle vicissitudini famigliari prima e dai disastrosi comportamenti e notevoli tradimenti del marito, in seguito. Lei rigida, lui ricco di immaginazione, volubile, assetato di contrasti riverserà nell’amore per la pittura la forza per spazzare via tutto il resto dalla sua vita, qualora rappresentasse un ostacolo. Ma la sua arte faticava a trovare riconoscimenti, i suoi quadri, a Parigi passavano quasi inosservati tanto che la moglie trovava abnorme e ossessivo l’accanimento del marito per la pittura. Gauguin fece amicizia con Cèzanne e  Degas e frequentando gli ambienti intellettuali e artistici degli impressionisti capì di essere di fronte alla necessità di una scelta. Abbandonato il lavoro in Borsa che dava da vivere a tutta la numerosa famiglia (moglie e cinque figli)  si trasferisce in Normandia. Emerge l’indole instabile e poco responsabile dell’uomo che Mette ha sposato. Di fronte al suo egoismo, gli affetti, l’amicizia, gli impegni assunti perdono di valore. Uomini come lui non sono infrequenti. Poiché il loro carattere si sviluppa a senso unico, il più diretto, quello cioè che riconduce in una sola direzione: a sé stessi e hanno ben poco da dare agli altri (ovviamente qui mi esprimo guardando il personaggio dal lato umano, non certo quello artistico). Ma anche a Rouen i sui quadri non si vendono e Paul segue la famiglia quando la moglie decide di tornare con i figli a Copenaghen. Scelta artisticamente disastrosa, lassù al nord le tele di Gauguin parlavano un linguaggio che nessuno era pronto ad accogliere. Pressato dall’ostilità della moglie, disprezzato in famiglia, senza denaro, senza il sostegno di qualcuno che credesse nel suo talento, solo come può esserlo un uomo tra stranieri, instancabilmente cercava la soluzione per le proprie divampanti emozioni: la completa libertà interiore. Abbandona moglie e figli, torna a Parigi e tra mille stravaganze ottiene riconoscimenti per i suoi ultimi lavori. Ma la sua impazienza di uomo dall’eterno fantasticare lo porta a fuggire ancora, fino ad approdare ai Carabi e, dopo la disastrosa avventura con Van Gogh si stabilisce, definitivamente a Tahiti “laggiù, dove la morte è una radice da cui cresceranno i fiori”. In una capanna di bambù dal tetto di paglia lavorava a quadri dai soggetti tahitiani, fanciulle nelle loro morbide e caste nudità i cui neri capelli serpentini incorniciavano uno sguardo luminoso tra le palpebre strette. Gonfi paesaggi, nature morte di fiori vividi e sregolati, continuavano a uscirgli dal pennello, quasi gravati da un misterioso malessere. La depressione si impadronì della sua mente, malato e disperato si lasciò andare a pensieri di morte. Estremo valore di testamento spirituale sarà l’impareggiabile dipinto “DA DOVE VENIAMO? CHE SIAMO? DOVE ANDIAMO?” di dimensioni enormi che gli era costato un mese di fatica febbrile.   E’ un’allegoria della vita, raccontata nelle sue varie fasi e scandita dalla solitudine.  Confiderà, prima di morire, Gauguin ad un caro amico: “ci ho messo tutte le mie forze e una così dolorosa passione per il male che mi accadeva che di quanto v’era in me di prematuro è stato superato, e ne è venuta fuori la vita”. E’ una tela di quattro metri e mezzo per 1,70. Ai due angoli, in alto, dipinti in giallo cromo, reca il titolo a sinistra e la firma in basso a destra. Il dipinto si “legge” da destra verso sinistra. Nasce con la vita, in basso a destra un bambino che dorme e tre donne accoccolate. Due figure vestite di porpora si  confidano i loro pensieri. Un’altra, accoccolata, leva in alto il braccio e guarda quelle, stupita che non temano di pensare al loro destino. Nel mezzo, un'altra coglie frutta (chiaro riferimento alla simbologia di Adamo ed Eva). Due gatti accanto ad un bambino seduto in terra. Una capra bianca. L’idolo che leva misteriosamente le braccia e sembra indicare l’altro mondo. Una figura accoccolata come ad ascoltarlo. Una vecchia, infine, vicina a morire e rassegnata, conclude la leggenda. Ai suoi piedi uno strano uccello che ha tra le zampe una lucertola, simbolo di vanità.  Ho voluto inserire solo questo dipinto del grande GAUGUIN, mi sembra contenga tutte le maggiori espressioni della sua mirabile arte.

Ah, dimenticavo: allargate la "tendina" verso destra per vedere tutto il dipinto.

 

10 Commenti a “LA MAGIA DI GENOVA, VAN GOGH E IL VIAGGIO DI GAUGUIN…..scritto da Franci”

  1. sandra vi ha detto:

    Grazie Francy il tuo przzo e’ sempre molto bello e si legge molto volontieri,amo Genova ,la conosco da tanti anni e sono d’accorcarudo con Alba l’ho scperta poco a poco percorrendo a piedi i suoicaruggi,ammirando e visitando i suoi palazzi.IN quanto a Van Gogh sei stata bravissima io rimpiango di nn essere a Genova >Mi consola di essere stata al museo di AMSTERDAM.

  2. albamorsilli ha detto:

    preparandomi ad andare a vedere la mostra di Van Gogh ho letto:
    Van Gogh era epilettico, un medico curava la sua malattia con il digitale, forse pochi sanno che il pittore fosse affetto da
    XAUTOSIA un difetto di percezione dei colori che gli faceva vedere tutto giallo, conseguenza da intosicazione da digitale.
    ecco il “periodo giallo” della pittura di Van Gogh
    Lui il bianco lo vedeva giallo, e lo scuro violetto (i Girasoli,
    Il Seminatore)
    Epilessia e genialità vanno a bracettoaltri grandi come il Caravaggio,Petrarca,Napoleone, petro il Grande ecc…erano epilettici

  3. albamorsilli ha detto:

    Genova è una cittàche non può tradire le aspettative di chi sa vedere oltre le apparenze, fatta su misura per chi ama andare a piedi.
    Genova è una città che si lascia scoprire con calma, inizialmente discreto,svela la sua belezza con classe ed eleganza, coivolgendo profondamente con i suoi vicoli (caruggi)
    piccoli e colorati e i suoi improvisi palazzi monumentali
    Via Garibaldi non lontano dal Palazzo Ducale è una via del patrimonio Dell’Umanità dell’UNESCO per i suoi meravigliosi palazzidel 1500

  4. ANGELOM ha detto:

    Gouguin, lasciata la naturalistica dell’impressionismo, si distaccò e realizzò un alto tipo di pittura con forme piatte, senza prospettiva con luci ed ombre che poi seguitò per tutta la sua vita , ampliandolo nei lontani mari della Polinesia e di Haiti, qui riprese a dipingere quelle forme naturali e umane secondo quella popolazione. No te aha oe riri?, olio su tela, 95×130, Orana Maria, olio su tela, 114×89 cm, Il cavallo bianco, olio su tela, 141×91 cm, queste opere sono la testimonianza di come egli fosse legato a questo genere d’ambiente. Gauguin cambiò molte volte il suo modo di dipingere dell’impressionismo, al sintetismo, più freddo senza spazi e volumi, poi il simbolismo che esertcita per poco. Muore solo e pochi intimi assisettero alla sua sepoltura, gli fu posta una lapide con la semplice scritta «Paul Gauguin 1903».

  5. francesca (franci) ha detto:

    Caro Spitz, sono diversi i critici d’arte che trovano nelle figure delle polinesiane di Gauguin tratti di pittura occidentale. Personalmente non sono d’accordo. Le polinesiane di Gauguin sbocciano in fretta, come le piante ai Tropici, sono alte e solide nel corpo ma gravi ed altere negli atteggiamenti. Hanno l’espressione femminilmente matura, seppur giovanissime (la sua Tehura aveva solo quattordici anni), maliziosamente enigmatiche. La pelle d’oro bruno, le forme ricche e levigate. La loro bellezza armoniosa e la morbida indolenza pronta a scattare rendono alla perfezione la remota malinconia dell’anima maori. Non riscontro tutto questo nell’arte figurativa occidentale.
    Per quanto riguarda le interpretazioni sulla vera causa della morte di Van Gogh posso dirti che ho un amico giornalista, accanito studioso della vita e delle opere di Van Gogh, che proprio in questi giorni è tornato da Auvers percorrendo a ritroso il percorso dell’artista proprio per indagare sulla sua vera tragica fine. Nulla di ciò che hanno ipotizzato i due critici d’arte americani Naifeh e Smith risulta provato, anzi, da notizie raccolte “sul campo” tutto conferma la tesi del suicidio. Devo però precisarti, caro Spitz, che la morte di Van Gogh avvenne nel 1890 e non nel 1889 come tu hai scritto e dall’episodio del taglio dell’orecchio alla sua morte Vincent dipinse quadri mirabili raggiungendo l’apice di una capacità espressiva potente.
    Grazie del tuo buon commento.

  6. Spielman von Zuhoerer ha detto:

    Le opere di Paul Gauguin offrono sempre allo spettatore contemporaneo un’esperienza affascinante. Quelle polinesiane sembrano intrattenere un rapporto con la composizione dell’arte occidentale, questa è la mia impressione cosa ne pensa lei Francesca?
    Sull’orecchio tagliato c’è una nuova ipotesi:
    Non sarebbe stato Van Gogh a tagliarsi l’orecchio nella notte tra il 23 e il 24 dicembre 1888, ad Arles, ma sarebbe in¬vece stato Gauguin a ferire l’amico al ter¬mine di un litigio, forse non per motivi ar¬tistici, ma piuttosto per colpa di «una cer¬ta Rachele».
    Gauguin avrebbe mozzato il lo¬bo dell’orecchio di Van Gogh con una scia¬bola, che poi avrebbe gettato nel Rodano, al termine di un litigio “su una prostituta”, Rachele appunto (e non su problemi d’arte) mentre l’amico avrebbe taciuto per proteggerlo.
    Questa tesi dunque smentirebbe un’automutilazione che avrebbe anticipato il suicidio di Van Gogh, sette mesi più tardi.
    La sua descrizione, Francesca, scorre come l’acqua limpida di una sorgente cristallina,pura…

    Buona domenica a tutti.
    Spitz

  7. francesca (franci) ha detto:

    Grazie Franco, ma il merito è tutto della mia insegnante di storia dell’arte, io ho solo preso carta e penna (come faccio sempre) e ho riempito intere pagine di interessantissime nozioni.

  8. franco muzzioli ha detto:

    Complimenti…meglio di una lezione di Caroli.

  9. Lorenzo.rm ha detto:

    ‘Aspita, mi scordavo Van Gogh. Scusa, è stato un “lapsus calami”, come dicevano i romani.

  10. Lorenzo.rm ha detto:

    Che meraviglia, Franci, la mostra di Gauguin! Quanto a Genova, davvero “superba”.

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