scultore

            LO SCULTORE DI LEONI

CAP. V°

Arrivammo a notte fonda, senza rendercene conto, avevamo passato parecchio tempo a percorrere quei cunicoli e ad esplorare la nostra nuova posizione oltre le mura. Appena arrivati al Duomo ci sdraiammo in un pagliericcio nell'interno della fabbrica per non destare sospetti ed attendemmo il mattino. La giornata si annunciò con un leggero velo di nebbia, che avvolgeva la città rendendola quasi spettrale. Nessun abitante era uscito di casa, solo qualche milites era sulle bertesche e si notavano movimenti di persone esclusivamente nei pressi della fabbrica del Duomo. Uscii dalla tettoia nella quale normalmente si ripongono gli strumenti di lavoro e dove avevamo trascorsa la notte e vidi un gruppo di imperiali, forse dieci che avevano pernottato certamente nella città, facendo soverchierie e baldorie. Li capeggiava il capitano di Brunswick, noto personaggio di grande spavalderia, che comandava appunto la squadra degli imperiali inviati a controllare i domini Matildici. Il gruppo percorse a passi veloci la piazza e si infilò nel grande portone del palazzo del Vescovo. Avvisai Guglielmo, che era già al lavoro. Egli immaginò subito la situazione di pericolo e chiamò due milites, che erano all'interno del Duomo e dopo qualche minuto una ventina tra armigeri operai e milites erano pronti a salire la scala che porta alla sala del Vescovado. Il vescovo Dodone era seduto e contornato dai canonici, vicino alla porta vi era "baffo di rame" con alcuni milites; entrammo anche noi e rimanemmo a rispettosa distanza, guardando il capo degli armigeri in segno di intesa. Il capitano di Brunswick, uomo altissimo dalla folta barba nera e dal viso da mastino, si avvicinò al Vescovo, piantò un piede sulla pedana di legno che sosteneva il seggio e appoggiando una mano sul ginocchio leggermente piegato, protese il viso in avanti e con tono sprezzante disse "Caro Vescovo, Lei non sta collaborando per niente, i suoi armigeri sono stati un ostacolo alla cattura dei ribelli, Lei ha tolto quel maledetto bastardo dalla gabbia e ha fatto in modo che nessun capopopolo patisse per questa rivolta". Il Vescovo ascoltava immobile senza tradire la minima emozione. "Lei sa che noi possiamo essere molto duri in certi momenti" e così dicendo protese la mano destra con l'indice alzato verso Dodone. Il Vescovo abbassò un attimo la testa come per raccogliere i pensieri poi disse "Credo che lei capitano non si renda conto che è davanti alla massima autorità ecclesiastica e civile della città e che forse la vostra ribalderia è maggiore di quella di qualche testa calda, che nulla aveva fatto se non gridare in piazza, le chiedo di lasciare immediatamente questa sala". Per tutta risposta il capitano di Brunswick si tolse il guanto ferrato e lo sbatté in faccia al Vescovo. "Baffo di rame" si scagliò avanti con la spada in mano ed altre venti tra spade e picche lumeggiarono nella sala. Gli imperiali posero anch'essi le mani alle else, girandosi attorno per rendersi conto di una situazione, che forse era sfuggita loro di mano. Vi furono minuti di lunghissimo silenzio e di quasi immobilità delle parti, poi il capitano di Brunswick con un ghigno raccolse il suo guanto e fece cenno ai suoi armati di seguirlo. Varcò la soglia tra due ali di armigeri e di milites, pronti ad infilzarlo se mai avesse cercato di effettuare la pur minima reazione. Furono accompagnati alla porta Ovest della città, dove erano stati legati i loro cavalli, gli imperiali uscirono senza voltarsi per raggiungere il grosso della loro squadra che era alla ricerca dei fuggitivi e a far scorrerie nei campi. "Baffo di rame" disse "purtroppo siamo solo agli inizi, questi cani andranno senz'altro a chiedere aiuto ai vassalli della montagna, non penso passerà molto ed avremo la città assediata, se quelle teste calde avessero aspettato, proprio con gli imperiali in casa dovevano fare le loro rivolte". Diede ordine di andare al Castellaro e di liberare quelli che ancora erano rinchiusi "bisognerà poi avvertire il contado, certamente faranno razzie" e con lo spadone sulla spalla si incamminò sulle bertesche per organizzare i suoi armigeri. Non riuscivo a capire come mai fosse successo tutto questo, nei giorni precedenti, sembrava che gli imperiali ed il potere locale, fossero dalla stessa parte e che Dodone fosse contrario alla rivolta del popolo, chiesi spiegazioni a Guglielmo. "Vedi Solerio, gli equilibri politici sono precari, il Vescovo è senz'altro per una tranquilla conduzione della città, sotto la protezione della Contessa ed io sono del suo stesso parere, ma come hai visto è in aperta lotta con l'Imperatore ed i suoi uomini, che tendono ad imporre in tutti i territori il loro giogo e ancor più, come tu sai, vi è un grande contrasto a causa delle investiture, che anni fa ha portato il teutonico Enrico a Canossa. In questo complesso svolgersi degli eventi, si sta incuneando la voglia del popolo di unirsi alla lega dei Comuni, come può esserci quindi una sempre rettilinea condotta degli uomini?” “Ora è chiaro, il Vescovo è con il popolo, la Contessa è con il popolo, ma penso, con un popolo, che almeno per ora abbandoni le idee che possono sconvolgere l'attuale ordinamento". "Ma Guglielmo, penso che la voglia di libertà non sia una cosa sbagliata se serve a nobilitare una città e a renderla più forte ed autonoma, lo vedi nello slancio che i Mutinensi hanno nel creare la loro grande Chiesa, che non viene edificata per l'Imperatore o per il Papa, ma per loro stessi, per rappresentare al tempo stesso la potenza e la devozione della città. Conosco bene Ughetto e ti garantisco che non è solo spavalderia che lo nuove o interessata espansione della sua gilda, ma è la volontà di vedere la sua città padrona dei propri destini. A volte mi ha detto che vedrebbe idealmente le mura ampliate fino ai fiumi Secchia e Panaro, per comprendere il contado e tutti quelli che si sentono intimamente Mutinensi e che vorrebbe farlo con tutta la gente di Lombardia, che ha le stesse radici e che vive in questa unica grande valle". Guglielmo mi ascoltava con poco interesse, come se le mie parole fossero solo esaltate elucubrazioni di un giovane inesperto, infatti quasi sopra pensiero disse "Ughetto, ecco bisogna avvertire quel ragazzo di tornare in città, ora è in pericolo nei boschi, è necessario andarlo a cercare". "Posso andare io, passando dal cunicolo" dissi, ma Guglielmo non trovò opportuna questa soluzione, perché non conoscevo l'ager ed i boschi che contornano Mutina, era necessaria una persona che ben conoscesse quei luoghi. Chiamò quindi Guido, che lavorava presso la fabbrica del Duomo. Guido era un ometto poco più alto di un bambinello di undici anni, ma aveva forse quarant'anni, era un falegname espertissimo ed aveva fatto per anni il boscaiolo, pertanto conosceva ogni albero attorno alla città. Aveva una barbetta a spazzola solo sul mento e si faceva scendere i capelli sulla fronte con una buffa frangia, per coprire un poco la grossa stempiatura. Era agile e forte, allegro e sempre pronto a fare scherzi, ma non mi pareva un'aquila con la mente, non mi sembrava adatto a fare strategie per il recupero di Ughetto, poi non conosceva il cunicolo. Avrei voluto andare anch'io, anche per cercare Imelde di cà Baciocca, questa fanciulla mi era rimasta nel cuore e nella pelle e temevo per la sua sorte e per quella dei suoi. Insistetti tanto che Guglielmo accettò di farmi partire con Guido la mattina stessa. Misi alla cintola il coltello che mi aveva dato Veriano e che avevo conservato con cura ed assieme a Guido ci apprestammo ad uscire dalla città. Ormai il percorso nel cunicolo si era fatto per me famigliare, lo era meno per il mio compagno, che aveva il terrore dei luoghi chiusi e che ebbe qualche problema ad attraversarlo, ma infine uscimmo con gioia dalla pietra tombale al lato della via Aemilia. Nessuno era nei paraggi, si vedevano le sentinelle sugli spalti e le possenti mura, l'uscire da questa sicurezza da questa protezione mi diede un lieve senso di paura. Seguii Guido, che come uno scoiattolo si infilò tra le sterpaglie, che precedevano il grande bosco che conduceva fino a Nonantola. Il “bosco del lupo” era composto quasi esclusivamente da querce ormai spoglie, i nostri passi facevano scricchiolare questo spesso tappeto di foglie secche e ghiande ed era solo quel rumore che interrompeva il silenzio e la maestosità di questa cattedrale della natura, che incuteva un senso di stupore e timore. Guido camminava svelto senza voltarsi mai a guardar se lo seguivo, saltava con la massima agilità i frequenti rami che ostacolavano il cammino, io non ero avvezzo ad un tal ritmo e dopo qualche tempo ero rimasto indietro di parecchi passi, lo chiamai dicendo che avrei voluto rifocillarmi, anche perché ormai l'ora lo richiedeva. Guido si fermò ed attese con le mani sui fianchi, sopra di un tronco di un albero abbattuto, sembrava persino alto in quella posa di grand'uomo esperto di boschi e pensare che mi arrivava a stento al petto . Mi sedetti accanto a lui appoggiando le spalle al tronco e levai dalla bisaccia un pane e qualche pezzo di formaggio, che porsi anche al mio compagno. "Hai già l'idea di dove andare", chiesi con sospetto. Guido con un'aria tra il pensoso e l'ironico, disse che dovevamo inoltrarci ancora molto nel bosco, fino alla casa di Vulfrida, una specie di maga eremita, che abitava appunto nel bel mezzo della grande boscaglia. Guido disse che molto probabilmente Ughetto aveva scelto quel nascondiglio perché questa donna è di buon cuore e ha spesso aiutato chi si è perso nei boschi a far legna o anche semplicemente nell'attraversarli. Mi diceva che spesso si incontrano latrones, che vengono dalle valli al di sotto del Po, ma che mai nessuno di questi si è spinto sino alla casa di Vulfrida, perché se è buona con il viandante che si perde, è terribile con i malvagi, dicono che sa fare malefici impressionanti, sa tramutarsi in drago e in aquila e fare impazzire chi è animato di cattive intenzioni. Non credevo molto alle streghe, ne vidi una un giorno sul rogo, vecchia ed atterrita, ma mi fece più pena che paura e non mi ero mai posto il problema della loro mescolanza con il demonio e con i mostri della notte. L'inverno era alle porte e le giornate si erano accorciate moltissimo, già le ombre si allungavano spettrali e si cominciavano a sentire i fischi dei merli e le grida roche delle gazze, che si preparavano a cercare il cibo prima del sopraggiungere della sera. Una lieve bruma saliva dai fossi che attraversavano la boscaglia e rendevano lucenti gigantesche ragnatele che pendevano dai rami più bassi degli alberi, un piccolo animale, forse una faina si mosse sul sentiero, per poi sparire subitamente nel cavo di un albero, erano almeno tre ore che camminavamo, cominciava anche a sopraggiungere una certa stanchezza e l'umidità penetrava nelle ossa, mi alzai il cappuccio del mantello per meglio coprirmi e ripararmi da una nebbia che pian piano avvolgeva ogni cosa. Ormai nel bosco erano scomparsi i colori, la nebbia stemperava il giallo delle foglie e il verde dei cespugli perenni, i grandi tronchi sembravano enormi colonne nere e soltanto una luminescenza lattiginosa aleggiava sulle cime, tra i rami che gocciolavano, lasciando ogni tanto cadere una foglia, che sembrava volare cogliendo a volte tenui raggi di luce che le ridavano colore. Vidi lontano, come un leggero bagliore, una velata luce rossastra, che sfumava intorno, Guido si voltò e l'indicò con il dito dicendo "siamo giunti, quella luce in fondo è la casa di Vulfrida". Così detto accelerò il passo, togliendosi il cappuccio del mantello, forse per rendere possibile un immediato riconoscimento. La casa di Vulfrida, se così si può chiamare, era un ammasso di legni contorti posti tra due grandi querce, che facevano da parete alla casa stessa. Erano travi sconnesse, mal calafate tra loro, così che si intravedeva tra le sconnessure, la luce di un grosso fuoco che ardeva all'interno. Il tetto doveva essere formato da grosse travi ed interamente coperto di paglia, era aperto in alto, senza un camino vero e proprio, soltanto una grande apertura dalla quale fuoriusciva un fumo denso e biancastro. La casa aveva solo una apertura sul davanti, con una porta abbastanza spessa formata anch'essa da travi tagliate grossolanamente . Tutt'intorno vi erano bastoni piantati nel terreno, con alla sommità oggetti indefinibili, passando accanto ho potuto notare un grappolo di ghiande infilate in un sottile canapo, il teschio di un piccolo animale con un serto di alloro ormai seccato, una serie di piccoli e sottili sfilacci, che poi ho potuto arguire fossero mute di bisce e serpentelli d'acqua legate assieme. È certo che questo posto dava i brividi anche ai più temibili latrones, si potevano immaginare tutti i sortilegi possibili, sembrava di intravedere occhi sfavillanti dietro i cespugli e i tronchi, la notte intanto aumentava le paure stendendo il suo scuro sudario. La porta della casa si aprì senza un rumore, ancora pochi istanti prima che fossimo giunti e sulla porta apparve una figura alta, completamente avvolta da un mantello che nella penombra sembrava fatto da mille code di animali e controluce la testa era un aggrovigliarsi di lanosità, che prendevano il colore della fiamma che bruciava nel camino interno alla casa. Sentii bloccarmi lo stomaco e rimasi fermo, impietrito davanti a quella immagine, forse passarono pochi istanti, sentii Guido tirarmi per un braccio dicendomi "su via entriamo!". Rimasi con gli occhi spalancati e con il sudore che mi scendeva dal collo, finché non entrai e potei constatare, che in piena luce Vulfrida era una bella donna sui cinquant'anni, aveva un viso dolcissimo, con i capelli biondi con ampie striature bianche , arruffati e scomposti, che facevano aureola ad un viso ancor fresco e sorridente, il suo mantello era liso e strappato in più punti, e non era affatto formato da code di animali. Mi indignai con me stesso per essermi così ingenuamente spaventato e mi riproposi ancora una volta di guardar le cose non con gli occhi dell'immaginazione e della paura, ma con quelli della ragione e della realtà. La casa nell'interno era come un grosso guscio di noce, nel centro vi era un grande camino di pietra dove splendeva un fuoco vivacissimo e tutt'intorno, sui sassi che formavano questo grosso braciere, scodelle, vasi di legno e di coccio, mortai ed altri mille strani oggetti. Attaccate alle travi sconnesse delle pareti, delle mensole erano state poste a varie altezze e portavano anch'esse ciotole e vasi di vetro piene di erbe di tutti i tipi. Una delle grandi querce faceva parte integrante della casa e addossata a questo poderoso tronco, era stata posta una scaletta a pioli, che saliva in alto oltre il pertugio del tetto, che fungeva da camino e si perdeva nel buio della notte. "Siete venuti a cercare Ughetto" disse con un sorriso, senza che avessimo minimamente accennato allo scopo della nostra visita. Guido non ne rimase stupito, sorrise e si mise a sedere su di un tronco tagliato che fungeva da sedile. Vulfrida si sedette sull'unico grosso scranno che esisteva nella casa e invitò a mia volta ad accomodarmi su di una stuoia vicino al braciere. "Non vi preoccupate" disse " è giunto da me con il terrore di essere inseguito dagli imperiali, mi ha raccontato quello che è successo a Mutina, ma se ora siete qui, altre cose saranno certamente accadute". Guido raccontò le vicissitudini delle ultime giornate e che ora, per Ughetto e tutti noi, il pericolo maggiore era proprio star fuori dalle mura. "Ughetto è andato verso il fiume Panaro, dove vi sono dei vignaioli che conosce, per ottenere rinforzo, nella convinzione che a Mutina si imprigioni e si uccida ancora, sarà di ritorno tra poco, perché le case sono a poca distanza verso nord". Passò veramente poco tempo e all'esterno si sentirono voci concitate e un lontano rumore di cavalli. Uscimmo di corsa, Vulfrida prese una lunga verga che infiammò sul braciere ed avanzo con questa strana torcia accesa. Nella penombra del bosco vedemmo tre ombre urlanti correre verso di noi, erano Ughetto e due amici che concitati gridavano che quattro cavalieri imperiali a cavallo li stavano inseguendo. Vulfrida si pose nel bel mezzo dello spiazzo adiacente la casa, a braccia spalancate con la sottile e lunga torcia in mano, noi ci eravamo posti dietro di lei, con le spalle alla casa armati dei nostri coltelli. I quattro cavalieri comparvero sullo spiazzo e si fermarono davanti alla strana figura che sbarrava loro la strada, un paio, forse impressionati da questa improvvisa apparizione, tirarono le redini facendo impennare i cavalli. Vulfrida gridò "andatevene maledetti se non volete che la mia collera si abbatta su di voi". Gli imperiali esitarono, ma poi uno estrasse la spada e si preparò a caricare. Vulfrida rapidamente toccò con la fiamma della lunga torcia un tronco cavo sul fondo del quale sembrava adagiata una specie di polvere bianco giallastra che immediatamente esplose in un lampo accecante ed un denso fumo giallo coprì tutto. I cavalli degli imperiali si impennarono spaventati, scalciando e compromettendo la stabilità dei cavalieri, ed anch'essi impauriti e scossi da quell'evento che aveva del diabolico, pensarono bene di voltar i cavalli e sparire nuovamente nel bosco alla ricerca di nemici e ribelli meno pericolosi. Anche noi eravamo impietriti da quello scoppio e dallo strano bagliore, da questo denso e nauseabondo fumo, che sapeva tanto di demonio e di stregoneria, premevamo le spalle alle pareti della casa come per fuggire, come per sparire alla vista di questa potente maga. Vulfrida si voltò ed alla luce del braciere, ricomparve il suo volto sereno ed accattivante e subito volle tranquillizzarci. “ Non vi è nulla di magico in questo scoppio, in questo lampo ed in tutto questo fumo , ho bruciato solamente del sal petrosum mischiato a polvere gialla e che normalmente mi serve per spaventare i lupi.“ “che cos’è il sal petrosum?” chiesi incuriosito . “E’ una polvere bianca che raschio dai vecchi muri romani e che non voglio far conoscere a nessuno, perché penso possa essere molto pericolosa e mortale per l’uomo , la uso solo per cacciare i lupi” e nulla volle dire di più. Spaventati ed eccitati, entrammo tutti nella casa, con la certezza che per quella notte nessuno ci avrebbe più disturbati. Avemmo così la possibilità di vedere i due amici di Ughetto, due giovanotti robusti figli di un certo Bemondo. Raccontammo poi l'accaduto ad Ughetto facendo piani per l'indomani. Passammo buona parte della sera mangiando uno strano pane che Vulfrida ci aveva dato, era pieno di piccole bacche ed uva passita, buonissimo e molto corroborante. Poi Guido cominciò a riempire di domande la maga, voleva sapere come mai il volgo dice che lei sa trasformarsi in drago e in aquila, Vulfrida disse che nulla di magico era in lei, era solo una donna che amava leggere nelle cose della natura, che sapeva trovarle e sperimentarle, nulla di diabolico vi era nelle sue misture e nelle sue pratiche. "Sì" disse però con un sorriso "posso trasformarmi per te in un drago, se vuoi dovrai avere molta fiducia e bere questa liquido " Guido si ritrasse ponendo la mano davanti al viso, ma poi vedendo il volto sorridente e buono della donna, prese il boccale e bevve in un solo fiato il contenuto. Nulla successe, anzi disse di sentirsi benissimo, anche se la pozione era amara, poi sembrò cadere in uno strano torpore e rimase come immobile con gli occhi sbarrati di fronte alla maga. Vulfrida si avvicinò a lui passandogli lentamente le dita davanti agli occhi e vedendo che Guido restava immobile con le pupille dilatate, cominciò lentamente ed in maniera suadente a dire che doveva continuare a guardarla e con le mani disegnava cerchi davanti al viso. Questi strani movimenti durarono qualche tempo, poi sempre con voce suadente disse a Guido "ora mi vedrai trasformare in un verde ed altissimo drago, con una bocca enorme e fiamme sottili che usciranno e ti lambiranno, guardami, sto crescendo, sto diventando un enorme drago" Guido cominciò ad indietreggiare, piagnucolando sempre con gli occhi sbarrati, ma nulla stava accadendo, Vulfrida era sempre la dolce donna di prima, che faceva solo cerchi con le mani davanti allo spaventato boscaiolo, che ad un certo punto si buttò a terra con la testa tra le mani piangendo disperatamente. Vulfrida allora smise il suo insinuante convincimento, sollevò per le spalle Guido scuotendolo e lo obbligò a trangugiare un altro liquido che aveva preparato. Subito l'amico si mise tranquillo ed in capo a poco era tornato l'ometto di sempre. Non rammentava nulla di quello che era successo, non ricordava di aver visto draghi, di essersi buttato a terra terrorizzato e piangente, anzi era tranquillo e rilassato come mai era stato. Vulfrida spiegò a noi attoniti ed increduli spettatori, quello che era successo. Disse di aver dato a Guido l'infuso di alcuni funghi del bosco che inducono prima ad uno stato di torpore. Questo strano sonno ad occhi aperti, induce poi a credere alle parole dette dalla maga e le sue mani abili a vedere cose che in realtà non accadono "Nulla avete visto voi, perché in realtà nulla è accaduto". "Nei momenti passati invece Guido ha avuta la esatta sensazione che io mi trasformassi in drago e la paura ed il terrore di questa mia trasformazione l'avete letta nei suoi movimenti, nel suo pianto. Sono solo immagini della mente, che ho insinuato nel vostro amico, reso docile nella sua naturale volontà dall'infuso che ha bevuto e se io non gli avessi fatto bere l'altra pozione, avrebbe ricordato con terrore una avventura mai vissuta realmente, i demoni ed i veri draghi, se mai esistono, non c'entrano per niente, è solo la natura che ci circonda e la nostra mente che compiono queste magie". Ci raccontò poi di altre meraviglie e di altri filtri medicamentosi, che preparava e che disse, avrebbero un giorno aiutato molto l'uomo. Stanchi, dopo aver predisposto turni di veglia, ci preparammo a trascorrere la notte. La mattina si presentò livida e scura, qualche fiocco di neve aveva ingrigito il prato antistante la casa, il freddo era pungente. Ci stringemmo nei nostri mantelli sollevando i cappucci, Vulfrida aveva preparato delle bevande calde e qualche pezzo di pane, avevamo deciso di partire subito per Mutina, in cinque eravamo certo più sicuri ed avremmo potuto camminare spediti anche se era giorno. Vulfrida ci consigliò però di fare un ampio arco verso ovest per arrivare alla città, in modo da non attraversare il folto del bosco e giungere dove certamente gli imperiali della sera prima ci potevano aspettare. Vulfrida si accostò dicendomi "ho saputo dagli altri che tu sei uno degli sculptori della Cattedrale, voglio farti un regalo per le tue mani avvezze a tener scalpello e martello" e mi porse una piccola scatola intagliata nel legno, dentro la quale vi era un unguento giallastro dal fresco profumo di menta e di erbe, "quando le tue mani saranno stanche per il tanto picchiare sui marmi che lavori, prova a spalmare sulle dita un poco di questo unguento e vedrai che ne otterrai un grande beneficio e soprattutto ti ricorderai di me". Presi con riconoscenza questo dono e lei baciai la mano. Salutammo Vulfrida, promettendo in tempi migliori di tornarla a trovare, poi in fretta ci inoltrammo nel bosco.

 

(segue, venerdì 26 Giugno)

2 Commenti a “LO SCULTORE DI LEONI – V° CAPITOLO…..di Franco Muzzioli”

  1. francesca (franci) ha detto:

    Questa Vulfrida è una grande donna!

  2. franco muzzioli ha detto:

    Vorrei precisare che la “maga” Vulfrida aveva inventato una specie di polvere da sparo ,perchè il salpetrosum (citato da più fonti medievali ,è una polverina bianca che spesso si trova presso mura antiche di mattone)) non era altro che il salnitro o nitrato di potassio che unito a zolfo e carbone dava appunto una polvere da sparo.

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